venerdì, 11 ottobre 2024
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Italy1.png “SOLO INSIEME SI PUO’”….
 


Carissime sorelle,
passate le impegnative e forse difficoltose settimane di inizio anno scolastico e
pastorale, per chi lavora anche in parrocchia, con le molte riunioni ed iniziative, e ad anno
ormai iniziato, anche noi riprendiamo il nostro cammino formativo. Cammino che
certamente avrete già ripreso anche solo per preparare e formulare insieme il Progetto
Comunitario annuale.

Giunte quasi al termine dell’anno dedicato al Giubileo della Misericordia, ciascuna può
fare un bilancio personale del proprio cammino di conversione e di come ha saputo far
tesoro della sovrabbondanza di grazia che ci è stata offerta, per divenire “misericordiosi
come il Padre.” Bilancio personale che si riflette inevitabilmente sull’aspetto comunitario,
se cioè ciascuna ha saputo più o meno dare alla propria comunità l’apporto del suo
“amore compassionevole”.

La proposta formativa di quest’anno non può quindi che porsi come naturale
continuazione della tematica della misericordia, dal momento che “la credibilità della Chiesa
passa attraverso la strada dell’amore misericordioso e compassionevole” (Misericordiae Vultus, n.
10). D’altra parte fine della nostra Congregazione, e quindi di ciascuna di noi, è la santità,
ossia l’esercizio della carità in ogni sua forma, verso Dio e verso il prossimo (cfr Cost. 10-11), come ci insegna il Beato Antonio Rosmini, della cui Beatificazione ricorrerà il decimo anniversario nel 2017.

“Solo insieme si può…” è stato scritto sulla Distribuzione degli uffici di questo nuovo anno pastorale. “Solo insieme si può…”: è solo uno slogan o può divenire un programma di formazione per essere trasformato in prassi di vita?
Si sa, nulla è nuovo sotto il sole. Sebbene il Vangelo abbia oltre 2.000 anni, noi dobbiamo ancora e sempre confrontarci con la Parola di Dio per incarnarla ed essere sempre più somiglianti a Cristo (cfr. Cost. nn. 9-10).

Anche questa è “ rivitalizzazione”: rivisitare il già noto, Parola di Dio e carisma, per interiorizzare quanto ancora non è stato trattenuto e custodito nel nostro cuore perché forse l’abbiamo lasciato scivolare via attraverso le larghe maglie dell’indifferenza, della superficialità, dell’abitudine, del disimpegno, non trasformandolo in un dono quotidiano a Dio e agli altri. Son questi alcuni degli atteggiamenti negativi che ci impediscono di vedere e di costruire il nuovo che ogni giornata ci offre, se solo sapessimo cogliere l’opportunità di collaborare con lo Spirito Santo che abita in noi ( Rm 5,5 ) e rendere così nuova ogni cosa (cfr. Is 43,19; Ez 37, 5ss).
“La santità viene da una passione rinnovata. Vera santità è rinnovare adesso la mia passione per Cristo e per il Vangelo. Adesso…..Vivere è un’infinita pazienza di ricominciare.” (Ermes Ronchi)

“La “ rivitalizzazione” del “nostro carisma rosminiano e della missione nel servizio di Dio e del suo popolo” (CVF p.9) ci richiede innanzitutto una grande “passione”, quindi intensità di amore per la vita in ogni sua forma, per Cristo e per la sua Chiesa, per la nostra Congregazione. E l’amore appartiene ad ogni età, ad ogni condizione di vita”, leggiamo nella ancor valida Mappa di Circoscrizione (p.5).
Una passione che dobbiamo sempre rinnovare e vivere nell’ ”adesso”, il che implica una attenzione viva, un essere presenti a se stessi e all’attimo che ci interpella e ci invita a metterci in gioco. E’ nell’adesione all’ ”adesso” che io mi rinnovo continuamente e costruisco me stessa, la mia vita ed anche la mia eternità, ed attraverso il mio rapporto con Dio e con gli altri, cominciando da chi mi è più vicino, collaboro alla costruzione del mondo che mi circonda.

“Solo insieme…” Ma insieme a chi? Innanzitutto insieme al Padre che mi ha scelta (cfr Ef 1,3-5 ), al Figlio, Cristo Signore, che mi ha chiamata (Mt 5,19;Gv 21, 19) e mi ha donato il suo stesso Spirito ( Gv 16, 7ss ) rendendomi “figlia” e collaboratrice nella diffusione del Regno. Sono loro il primo e più sublime modello di “insieme”: diversi eppure uno nella circolarità dell’amore creatore, redentore, santificatore.
L’unione e l’intimità con Dio sempre desiderate e cercate sono la fonte originaria di ogni bene. In quella comunione sta la sorgente da cui sgorga l’amore in ogni sua forma.
E’ nel sempre ricercato e coltivato, profondo e personale rapporto con il Signore che posso trovare, e ritrovare, la motivazione fondante la mia vita cristiana e religiosa.

Lì attingo la forza della perseveranza quando il cammino si fa più faticoso.
In quell’abbraccio trovo il perdono e, fatta nuova creatura, nel cuore rigenerato attingo la forza per riprendere il cammino.
E’ lì che la fede si rinnova e rinfranca, soprattutto quando le prove della vita ci toccano dolorosamente, quando siamo sopraffatte o tentate dallo scoraggiamento perché la realtà sembra negare un futuro certo e le nostre aspettative talvolta naufragano lasciandoci confuse, incerte e dubbiose.

E’ sempre lì, in quell’intima comunione con Cristo che la gioia del cuore, nell’esperienza dell’essere amata, trova la sua casa.
“Se tu conoscessi il dono di Dio e chi è colui che ti dice: “Dammi da bere!”, tu stessa gliene avresti chiesto ed egli ti avrebbe dato acqua viva….Chi beve dell’acqua che io gli darò, non avrà mai più sete, anzi, l’acqua che io gli darò diventerà in lui sorgente di acqua che zampilla per la vita eterna”. (Gv 4, 10.14)
Gesù si offre a noi nella totalità dell’amore come acqua sorgiva, fresca e dissetante, fonte inestinguibile e rigenerante che ci trasforma, a nostra volta, in sorgente.
“Mi ami ,tu?” “Mi ami ancora, mi ami sempre ?”: mi chiede ogni giorno il Signore ed ogni giorno attende la mia risposta nella concretezza della vita.
E’ nell’ intimità con Cristo che il mio amore, la mia passione si rinnovano ed accresce in me il desiderio di santità (cfr. I Massima) fino a lasciarmi da Lui purificare e trasformare per essere sempre più vera, autentica e semplice nel donarmi, insieme a Lui, ad ogni persona che incontro sul mio cammino, conosciuta e sconosciuta. Allora il mio “insieme” con Dio diventerà l’ “insieme” con gli altrui.
“Lasciamoci innamorare della sua dolce amabilità” (Rosmini) solo così, attirate da questo divino amore che ci inabita e ci abbraccia, ogni giorno riprenderemo con rinnovata fiducia e passione la nostra sequela del Signore.
Con un fraterno saluto ed il reciproco ricordo nella preghiera.

LA PAROLA di DIO (suggerimenti per la Lectio Divina comunitaria)
1Gv 4, 7-16 “Noi abbiamo riconosciuto e creduto all’amore che Dio ha per noi”.
Gv 15, 1-11 “ Rimanete in me”
Gv 10, 7-15 “Io sono venuto perché abbiano la vita”
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“MI AMI , TU?”
da “ Le nude domande del Vangelo”
Ermes Ronchi


Quand’ ebbero mangiato, Gesù disse a Simon Pietro: «Simone, figlio di Giovanni, mi ami più di costoro?». Gli rispose: «Certo, Signore, tu lo sai che ti voglio bene»…. Gli disse di nuovo, per la seconda volta: «Simone, figlio di Giovanni, mi ami? » «Certo, Signore, tu lo sai che ti voglio bene.» Gli disse per la terza volta: «Simone, figlio di Giovanni, mi vuoi bene?»…. « Signore, tu conosci tutto; tu sai che ti voglio bene.» (Gv 21, 15-19)
Risuona una delle domande più alte ed esigenti di tutta la Bibbia: «Pietro, tu mi ami?». Quando interroga Pietro, Gesù interroga me. E l’argomento è l’amore. «Alla sera della vita saremo giudicati sull’amore» (Giovanni della Croce). Dio è la domanda che si accende dentro le nostre parole religiose, spesso pronunciate senza, pàthos, senza èros. L’amo da pesca che scende e ci aggancia proprio là dove siamo più umani. E avvia percorsi, inizia processi. E’ commovente l’umanità di Gesù: anche se risorto implora amore, amore umano. Può andarsene, se è rassicurato di essere amato. Non chiede: Simone di Giovanni, hai capito il mio messaggio, hai compreso quello che ho vissuto? Invece è come se dicesse: lascio tutto all’amore, e non a progetti di qualsiasi tipo. Devo andare e vi lascio una domanda: ho suscitato amore in voi? A voi che, come Pietro, non siete sicuri di voi stessi a causa dei molti tradimenti, ma ancora mi amate, a voi affido il mio messaggio. Gli apostoli sono tornati alle loro case, al lago dove tutto era incominciato. Là odono di nuovo la grande parola che aveva, tre anni prima, rovesciato la loro vita: «Seguimi ! ». E ripartono. E più non importa la paura, le illusioni finite nel sangue e nella fuga, i rinnegamenti. C’è un nuovo inizio che fiorisce per grazia, a dirci che «la fede va di inizio in inizio, attraverso inizi sempre nuovi» (Gregorio di Nissa), che vivere è l’infinita pazienza di ricominciare. E questo è possibile perché il tradito ritorna, e ritorna come amico; l’abbandonato ritorna, e si mette nelle mani di coloro che l’hanno abbandonato; il rinnegato ritorna, e si fida totalmente, ciecamente. «Io vado a pescare» aveva detto Pietro (Gv 21,3). Io torno indietro, è tutto finito. Chiusa la parentesi di quei tre anni di itineranza libera e felice, esaltante e battagliera: è la resa di Pietro. Con lui si arrendono i suoi sei compagni: “ Veniamo anche noi con te.” Allora, ammainati i sogni, uscirono, salirono sulla barca, ma in quella notte non presero nulla. È una brutta notte dentro e fuori dei sette. Notte senza stelle, notte amara, in cui in ogni riflesso d’onda pare loro di veder naufragare un sogno, un volto, una vita. Notte senza frutto, perché capissero che indietro non si torna, che dimenticare Cristo è sterile fatica, che senza di lui la vita è come un pascolare il vento (cfr. Qo 1,14), un vento nella notte, fatto di nulla, e che nessuno può guidare. Poi verso l’alba quella voce dalla riva, quasi dolcemente ironica: «Figlioli, non avete nulla da mangiare?» (Gv 21,5). Dopo una notte così brutta, dopo una notte da falliti. E rispondono insieme, in coro: «No». Senza di te non abbiamo niente, non stiamo bene, lontano dalla tua luce non vediamo niente. Una richiesta di aiuto. Ma il vero miracolo non sono le reti colme fino a strapparsi. Il vero miracolo è Pietro che si butta in acqua, è l’impazienza di Pietro che si lancia nel lago, l’urgenza dell’amore, che ha sempre fretta, che non ha paura di rimproveri o castighi, che nuota piangendo verso colui che aveva rinnegato (cfr. Gv 21,6-7).

La prora del cuore che punta diritta verso quel piccolo fuoco sulla spiaggia. Il vero miracolo è che la fragilità dei discepoli, la fragilità di Pietro, che Gesù aveva chiamato “roccia”, la mia fragilità non è un ostacolo per seguire il Signore, ma è una risorsa. Il Maestro non si lascia impressionare dai difetti di nessuno, ma pronuncia e crea futuro. Come la prima volta: «Non temere, Simone, d’ora in poi sarai pescatore di uomini» (Lc 5,10): li raccoglierai da quel fondo dove credono di vivere e non vivono; mostrerai loro che sono fatti per un altro respiro, un altro ciclo, un’altra vita. Li raccoglierai per la vita. Il miracolo è che la debolezza, inguaribile, tutta la mia fatica per niente, le notti senza frutto, i tradimenti, non sono un’obiezione, ma un’occasione per essere fatti nuovi, per stare bene con il Signore, per rinnovare la nostra passione per lui. Per capire di più il suo cuore. In questa pagina vedo fiorire la vera santità, che non consiste nell’assenza di peccati, in un campo senza più erbacce, ma viene da una passione rinnovata. Vera santità è rinnovare adesso la mia passione per Cristo e per il Vangelo. Adesso. «Simone di Giovanni, mi ami tu adesso?». E non c’è passato che tenga, non c’è peccato riesumato, non c’è più quella notte attorno al fuoco, nel cortile di Caifa, dove Pietro, Cefa, la roccia, si era sbriciolato davanti a tre servette, dove per tre volte aveva giurato: «Non lo conosco!» (Mt 26,69-74). Finita, cancellata dalle lacrime di allora e dall’amore di adesso, attorno a un altro fuoco, acceso da Gesù in faccia all’universo, di fronte al cuore di Pietro. È in nome del futuro che il rinnegamento di ieri è superato. E vale per sempre, vale per tutti: il Signore non perdona come uno smemorato, ma come un creatore. Questo interessa al Maestro: riaccendere i fuochi, un cuore riacceso, una passione risorta: «Pietro, mi ami tu adesso?». La santità non è una passione spenta, ma una passione convertita. Se spegni le passioni, sarai un eunuco, ma mai un santo. Il Signore crea creatori, artefici di futuro buo- no: «Pasci i miei agnelli». In riva al lago Gesù formula tre domande, ogni volta diverse, come tre tappe attraverso le quali si avvicina passo passo a Pietro, alla sua misura, al suo entusiasmo che si fa fragile. E per capire questo magnifico dialogo, il più bello di tutta la letteratura mondiale, riascoltiamo le parole originarie del vangelo, nel loro suono originario. E immaginiamo Gesù che pronuncia la domanda, con il suo sguardo ad altezza d’occhi, ad altezza, di cuore. Prima domanda: «Simone, figlio di Giovanni, mi ami più di costoro?». Gesù adopera il verbo dell’agape (agapàs me), il verbo dell’amore grande, del massimo possibile, del confronto vincente su tutto e su tutti. Del cuore ricco che va in cerca della povertà d’altri per colmarla. Pietro risponde solo in parte, evita i confronti con gli altri, ed evitando anche il verbo di Gesù, adotta il termine umile dell’amicizia: philéo (philó sé). Non osa affermare che ama, tanto meno più degli altri; un velo d’ombra sulle sue parole, il ricordo dell’altro fuoco gli fa dire: Certo, Signore, tu lo sai che ti sono amico. Seconda domanda: «Simone, figlio di Giovanni, mi ami (agapàs me)?». Non importano più i confronti, non misurarti con gli altri, ognuno ha la sua misura. Ma c’è amore, amore vero? Amore per me? Cos’è l’amore? Tu lo sai: «Se ti sei innamorato una volta, sai distinguere la vita dalla sopravvivenza. Sai che sopravvivenza significa: mangi il pane e non ti tieni in piedi, bevi l’acqua e non ti disseti, tocchi le cose e non le senti, annusi il fiore e il suo profumo non arriva alla tua anima. Se però l’amato è accanto a te, tutto risorge e la vita ti inonda ….Questa piena della vita è l’amore. Ed è la sola pregustazione del regno» (Christos Yannaras). Quando l’amore c’è, non ti puoi sbagliare, è evidente, solare, indiscutibile. Ma, come prima, Pietro evita i termini precisi della domanda, invece che di amore parla d’amicizia (philó se). È come se soltanto Gesù potesse usare il grande verbo amare (agapào), lui che è l’amore stesso. Noi no, quella parola ci fa tremare. E Pietro risponde affidandosi ancora al nostro verbo sommesso, quello più


rassicurante, più umano, più vicino, che conosciamo bene; si aggrappa all’amicizia e dice: «Signore, io ti sono amico, lo sai!». Terza domanda: Gesù riduce ancora di più le sue esigenze, si avvicina a Pietro. Il Creatore si fa a immagine della creatura e prende lui a impiegare i nostri termini, a usare i nostri verbi e dice: «Simone, figlio di Giovanni, mi vuoi bene, mi sei amico?». L’affetto almeno, se l’amore è troppo, l’amicizia almeno, se l’amore ti mette paura. «Pietro, un po’ di affetto posso averlo da te? ». Gesù dimostra il suo amore abbassando per tre volte le esigenze dell’amore. Fino a che le esigenze di Pietro, la sua fatica, la sua tristezza diventano più importanti delle esigenze stesse di Gesù. Non è la perfezione che lui cerca in me, ma l’autenticità. Non mi affannerò per essere perfetto, ma per essere vero e non ipocrita, questo sì. Non siamo al mondo per essere immacolati, ma per essere incamminati. E Gesù dimentica lo sfolgorio dell’agape e si pone a livello della povertà della sua creatura, perché in amore il tu è più importante dell’io; se l’amore è vero, l’io non si pone su di un piedistallo, ma ai piedi dell’amato. Gesù, mendicante di amore, mendicante senza pretese, conosce la mia povertà, conosce che là, solo là, nella povertà, sono me stesso, e mi chiede la verità di un po’ di amicizia. Vorrei essere lì, al posto di Pietro, e rispondere al Signore e poter dire: sì, tu lo sai che un po’ di bene te lo voglio, un po’ di amicizia fra tanta indifferenza, un po’ di calore fra tanta freddezza. Sì, ti sono amico, ti seguirò perché ho capito che non cerchi uomini perfetti, ma semplicemente uomini veri, con passione per te. Non ti affidi a Pietro-Cefa, alla “roccia” che in me non c’è, ma a Simone di Giovanni, cioè alla mia verità, intera e umile, mi chiami con il mio nome di casa, nome duplice intessuto d’ombra e di luce. E nell’ultimo giorno, quando la sera della vita si aprirà su giorni senza tramonto, il Signore di nuovo ci chiederà soltanto: mi vuoi bene? E se anche l’avrò tradito per mille volte, lui per mille volte mi chiederà: mi vuoi bene? E non dovrò fare altro che ripetere, per mille volte: sì, ti voglio bene. E piangeremo insieme di gioia. Se ci chiedono: tu come cristiano a che cosa credi? Qual’ è il cuore semplice della tua fede? La nostra risposta va sicura: credo in Dio Padre, in Gesù Cristo morto e risorto, e a seguire i vari articoli del simbolo apostolico. L’apostolo Giovanni, nel capolavoro che è la sua prima lettera, offre però una risposta diversa: i cristiani sono quelli che credono l’amore: «Abbiamo conosciuto e creduto l’amore che Dio ha in noi» (1 Gv 4,16). Non si crede ad altro, non all’onnipotenza, all’eternità, all’onniscienza di Dio, alla perfezione: si crede l’amore. La fede ha tre passi: ho bisogno, mi fido, mi affido. Credere è aver bisogno d’amore, fidarsi e fondarsi sull’amore, come forma di Dio, forma dell’uomo, forma del vivere. Fidarsi e fondare la vita su questa ipotesi: che più amore è bene, meno amore è male. Ogni cedente è un credente nell’amore, un risvegliatore, un rianimatore di legami, uno che aiuta gli uomini a ritrovare fiducia nell’amore. «Noi abbiamo creduto l’amore»: è molto importante. Perché credere all’amore possono tutti, chi ha una via religiosa e anche chi è senza una ipotesi religiosa. E ripeterlo ai giovani: voi credete l’amore. Il cardinale Dionigi Tettamanzi spiegava ai giovani, nel linguaggio tipico della loro età: «Credere è avere una storia con Dio». “Avere una storia” nel dialetto giovanile è camminare nell’amore con una persona. Ho un ricordo personale di Olivier Clément, che ho avuto il privilegio di avere come insegnante a Parigi. Parlando di catechesi affermava: «Vuoi spiegare a un giovane d’oggi che cos’è il paradiso, che cos’è l’inferno? Parla il linguaggio dell’amore. L’innamoramento è una esperienza mistica, l’unica per la maggior parte dei nostri contemporanei. Chi è innamorato sa bene cos’è il paradiso: è ritrovare l’amata dopo essersi lasciati o perduti; è lo stringersi, l’abbraccio desiderato. E sa bene anche che cos’è l’ inferno: è la lontananza, il tradimento, il perdersi».


Il cuore semplice della mia fede: credo l’amore che Dio ha in me. Non il mio, il suo amore. La salvezza non è che io lo ami, ma che lui mi ami. E che io sia amato dipende da lui, non da me. Amore che Dio ha in me, che significa verso di me, ma anche dentro di me. Non solo ama me, ma ama in me. In ogni mio amore è lui che ama. Lui è l’amore in ogni amore. Non ci sono due amori, uno di cielo e uno di terra. C’è un unico grande «amor che move il sole e l’altre stelle» (Dante Alighieri), che muove il Creatore verso la sua creatura, il Signore verso la Chiesa, Adamo verso Èva, ed è un unico mistero, come dice san Paolo: «Questo mistero è grande» (Ef 5,32). Ogni volta che preghiamo: donaci un cuore nuovo, noi chiediamo che ci sia dato il cuore di Dio. E ci sarà un giorno in cui a noi, che abbiamo fatto tanta fatica per imparare ad amare, a noi sarà dato il cuore di Dio e allora ameremo con il cuore stesso di Dio. È straordinario. Noi che crediamo all’amore abbiamo la vocazione di risvegliare in noi e negli altri la fiducia nell’amore. Ci chiameranno ingenui? Ma beati gli ingenui, solo loro hanno occhi così limpidi da vedere le tracce di Dio dovunque. Dovremmo accostare anche l’amore umano con grande venerazione, e farne uno strumento di catechesi, non di esercizio della morale; anzi, farne il luogo privilegiato dell’evangelizzazione. Dove si affaccia già l’eternità. L’amore è teologo, il primo teologo. Ricordo un episodio. Padre Giovanni Vannucci e don Zeno Saltini, due grandi uomini di Dio, un mistico e un diacono di fuoco, stanno chiacchierando a una finestra del Marianum a Roma. Guardano fuori e sul viale XXX Aprile osservano un ragazzo e una ragazza salire adagio tra i grandi alberi del viale, salgono e si abbracciano, camminano e si baciano. Allora padre Giovanni interrompe ciò che stava dicendo e dice a don Zeno: «Quando tu sarai capace di ringraziare il Signore perché sulla terra ci sono due creature in più che si amano, di ringraziare e di godere perché nel mondo c’è più amore di prima, in quel preciso momento sarai molto avanti nel cammino spirituale». Noi come avremmo reagito? Ma insomma, un po’ di riservatezza… Quando vediamo dei ragazzi innamorati, non facciamo i sospettosi, i diffidenti: l’innamoramento è una esperienza mistica allo stato selvaggio, ma dove c’è veramente l’estasi. Dove il tu conta più dell’io. Dove senti affacciarsi eternità. Ogni evento di amore è sempre decretato dal cielo. E di fronte a situazioni affettive che chiamiamo irregolari? Giudicarle a partire dalla morale, anziché dalla forza di rivelazione che hanno, vuol dire allontanare quelle persone dalla Chiesa per anni, forse per sempre. Se il cristianesimo è invece qualcosa che ama e canta l’alfabeto della vita, se tu sarai un cristiano così, allora una gioia lucente uscirà da te e andrà sul mondo come una benedizione. La crisi di fede oggi nel mondo occidentale incomincia con la crisi dell’atto umano di credere. Perché non si crede in Dio? Perché non si crede all’amore, non si ha fiducia nelle persone. È questo che fa male alla vita. San Giovanni, in una delle sue espressioni folgoranti, scrive: «Chi odia il fratello», cioè chi non lo ama, «è omicida» (1 Gv 3,15). Chi non ama, chi è indifferente, è omicida. Non amare equivale a uccidere. Questa è la serietà del credere all’amore! Il contrario dell’amore non è l’odio, ma l’indifferenza. È questa la linfa segreta di ogni male. L’in-differenza per cui l’altro per te non esiste neppure, non conta, non vale, non è. Quando interroga Pietro, il Signore interroga me: tu, mi ami? Solo io posso rispondere. Mi brucia il cuore, qualche volta, come ai discepoli di Emmaus? Non scappiamo da questa domanda, dietro impegni, agende, telefonini. Ci sono quelli che credono di amare Dio perché non amano nessuno sulla terra. Quelli che si illudono di amare Dio senza amare i fratelli. Ma Dio non è mai presente dove è assente il cuore.


Tu, mi ami? Posso rispondere recitando il mio atto di fede, ma pàthos, èros, agape, philìa sono espressioni passionali, non teoria. Posso rispondere: io ti proclamo, ti celebro, ti annuncio. Ma la domanda è: mi hai dato della tua carne, del tuo sangue, con un po’ di passione? Dobbiamo tornare a innamorarci. Quando uno si innamora, sembra pazzo, perché vede una ragazza, e tutta la testa, tutto il corpo, tutta l’anima è lì. Non c’è divisione. Tornare a innamorarci oggi vuoi dire, come ci suggerisce Gesù: «Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente» (Mt 22,37), cioè con tutti noi stessi, corpo e anima, che tradotto per noi oggi si-gnifica: smetti di amare Dio da servo. Si deve tornare tutti ad amare Dio da innamorati. Allora sì che la vita, e la fede, si riempirebbero di sorrisi. «La legge tutta è preceduta da un “sei amato” e seguita da un “amerai”. Sei amato, fondazione della legge; amerai, il suo compimento. Chiunque astrae la legge da questo fondamento amerà il contrario della vita» (Paul Beauchamp). PREGHIAMO AMAMI TU, SIGNORE Amami tu, Signore, anche se non sono amabile, anche se sono povero, anche se non lo merito, anche se ti amo poco, amami tu, Signore. Quando mi alzo al mattino, pieno di sogni, quando mi corico alla sera, pieno di delusioni, quando lavoro per inerzia, quando mi riposo e sono vuoto, quando prego così distratto, quando non ho voglia di amarti, ; amami tu, Signore. Quando penso di amare te senza amare gli uomini, quando mi illudo di amare gli uomini senza amare te, quando temo di amare troppo amami tu, Signore. Quando ho paura di compromettermi, e ho paura di impegnarmi, quando fuggo l’amore quando nessuno mi ama amami tu, Signore. (Adriana Zarri)


DAGLI SCRITTI DEL BEATO ANTONIO ROSMINI
“Il vero miracolo è che la fragilità dei discepoli, la fragilità di Pietro, che Gesù aveva chiamato “roccia”, la mia fragilità non è un ostacolo per seguire il Signore, ma è una risorsa. Il Maestro non si lascia impressionare dai difetti di nessuno, ma pronuncia e crea futuro.” (Ermes Ronchi) “Non angustiarsi per quanto è possibile, riposandosi in Dio che è il mare di ogni bene, dove l’uomo può deporre ogni timore ed ogni inquietudine. Tutto può la grazia di Gesù Cristo, quando induce nel nostro cuore le fede e la confidenza piena in quella bontà assoluta ed immutabile che non viene neppure limitata nei suoi affetti dal fango di cui siamo composti. Non resta che invocarla questa bontà con cuore semplice dicendo a se stessi: “Quando mi sento debole , allora posso tutto; tutto posso in colui che è mia forza.” (A Don G.B. Pagani ad Oscott, da Stresa 28 novembre 1843, E.C. Vol. VIII, lett.4894, p. 569) “Mi piace molto il sentimento di non troppo occuparsi di se stessi, né delle proprie miserie, ma contenti di averne una coscienza abituale e di fare di quando in quando quegli atti di profonda umiltà che sono verità e giustizia, addirittura occuparsi del Signore per amarlo e servirlo in se stesso e nel prossimo: il che rende l’andamento dello spirito più libero e semplice, e per questa via si vede che anche il Signore nel Vangelo indirizzava i suoi Apostoli.” ( a Sr. M. Geltrude Cerutti Superiora del Monastero di Arona, da Verona, 22 settembre 1847, EC Vol. X, lett.5979, p. 143) “Non è la perfezione che lui cerca in me, ma l’autenticità. Non mi affannerò per essere perfetto, ma per essere vero e non ipocrita, questo sì. Non siamo al mondo per essere immacolati, ma per essere incamminati.” (Ermes Ronchi) Chi ha iniziato in noi l’opera della santificazione la completerà. Se questa fosse puramente opera nostra, sarebbe disperata. Ma è l’opera di Dio, poichè la perfezione non è altro appunto che la comunicazione del Creatore alla sua creatura che si meraviglia di se stessa non sapendo spiegare un tal prodigio. Qui batte la grande dottrina di S. Paolo, che fa venire la giustificazione non dalle opere, quasi venisse da noi, ma dalla fede, cioè dalla confidenza in Dio misericordioso. La fede di S. Paolo è fede nell’onnipotenza della bontà divina, per la quale l’uomo, che sente se stesso nulla, opera tutto; l’uomo che sente di essere impotente alla perfezione sa insieme che Iddio, che a quella lo chiama, altresì gratuitamente lo porta; l’uomo che non vede in sé che peccato, vede nello stesso peccato l’occasione della massima gloria divina che sta in una infinita misericordia. Che fa dunque l’uomo con questa fede? Niente altro che sentire intimamente e confessare l’infinita sua imperfezione e impotenza di rispondere alla legge di perfezione che gli sta dinanzi, e in pari tempo credere che Iddio sia tanto buono e di bontà così potente da farlo salvo. Perciò la dottrina dell’umiltà insegnata da Gesù Cristo che disse: “ Chi si umilia sarà esaltato” è identica con la fede di S, Paolo. Sia pur vero che noi siamo colpevoli, se saremo umili saremo esaltati. Essere umili è credere alla verità, credere alla nostra imperfezione, credere alla potenza della grazia di Dio che ci perfeziona: “Abbiamo creduto all’amore”, dice S. Giovanni. (Al Marchese Gustavo Benso di Cavour a Torino, da Domodossola , 6 settembre 1837, E.C. vol. VI, lett.3330, p. 417) “La fede ha tre passi: ho bisogno, mi fido, mi affido. Credere è aver bisogno d’amore, fidarsi e fondarsi sull’amore… «Noi abbiamo creduto l’amore»: è molto importante.” ( Ermes Ronchi)


Io prego il Signore che vi benedica, infondendovi quello spirito grande che in ogni cosa tende al perfetto e all’infinito, per il quale siamo creati. Tale è il disegno di Dio, che questo nostro niente, questo nostro niente peccatore, debba aspettare tutto da Dio, senza eccezione di alcuna cosa che sia vero bene. E’ dunque necessario che dall’abisso della nostra miseria ci innalziamo con la fede nella eterna ed infinita bontà del Creatore, preparandoci a fare grandi cose per la sua gloria, tutte quelle che egli ci preparerà a fare attraverso l’ubbidienza, ed a farle nel modo il più perfetto. Sopra tutto vorrei che il distintivo di tutti fosse la carità illuminata e l’orazione che ne è la radice, l’alimento. (Al Diacono Domenico Cavalli a Ratcliffe College, da Stresa, 8 gennaio 1846 EC Vol. IX, lett. 5530, p. 465)


Il Signore ci ama e tanto basta: se non sapessimo questa dolce parola, chi potrebbe vivere su questa terra? Ma Dio ci ama! Il Signore è nostro Padre; non che noi ce lo meritassimo: per noi non sarebbe che un giudice e un Signore sdegnato, ma Gesù Cristo ce l’ha ridato, ce l’ha fatto padre amoroso: teniamoci in lui. (Al Nobil Uomo Don Giovanni Padulli a Milano, da Trento, 29 maggio 1832; EC Vol. IV, lett.1689, p. 307)
Dio ha una comunicazione reale con la sua creatura. Egli fa sentire all’uomo la sua azione, e produce in lui il sentimento di Dio, non solo nell’altra vita in cielo, ma anche in questa per via della grazia. Ed è quello che dice S. Paolo: “ quelli che sono condotti dallo spirito di Dio sono figli di Dio” e lo spirito di Dio è Dio, come è Dio la carità, al dire di S. Giovanni : Dio è carità, chi rimane nella carità rimane in Dio, e Dio in lui. (Al Prof. Don Alessandro Pestalozza a Milano, da Stresa, 5 marzo 1845, in EC vol. IX, lett. 5304, p. 243) Lo stesso amore con cui noi rispondiamo all’amore del Signore nostro, è un dono anch’egli del medesimo Signore che opera in noi il volere e l’agire (A Sr. M. Geltrude Cerutti Superiora del Monastero di Arona, Da Stresa, 16 gennaio 1848; EC Vol. X, lett.6078, p. 228) Oh, siamo grati al Signore e desiderosi di servirlo fedelmente ed amarlo in eterno! Usiamo un’umiltà sempre maggiore, memori che portiamo vasi di creta e che Dio solo vi mette dentro e vi accende il suo fuoco, che un giorno, rotta la creta del vaso, sfavillerà in purissima luce. Non dimentichiamo mai un momento il “vigilate et orate” che è quel gran mezzo che ci ha dato Gesù Cristo per ottenere la santa perseveranza. Evitiamo tutto ciò che indebolisce la nostra volontà al bene, e con atti risoluti, confermando ogni giorno i santi propositi della sublime vocazione con la quale ci ha chiamati, rinforziamoli sempre più. Questa è la vita eterna di cui parlano i Salmi: la via della pace e della gloria. La nostra libera volontà sia dunque tutta per Dio, e con tutte le nostre forze stringiamoci a lui. ( A Don Marco Beccaria a Domodossola, da Stresa, 11 febbraio 1852; EC Vol. XI, lett.7074, pp. 507-508) “Amore che Dio ha in me, che significa verso di me, ma anche dentro di me. Non solo ama me, ma ama in me. In ogni mio amore è lui che ama. Lui è l’amore in ogni amore.” (Ermes Ronchi)
Scrive san Giovanni: in questo si è manifestato l’amore di Dio per noi: Dio ha mandato il suo Figlio Unigenito nel mondo perché noi vivessimo per lui, e ognuno che ama è nato da Dio e conosce Dio (1Gv 4,7.9)
Rallegriamoci dunque ed esultiamo nello spirito. Con santo ardimento possiamo intraprendere l’opera grande, sovrumana, di votarci alla carità. Agli occhi ciechi del mondo sembra un’impresa temeraria. Essa infatti supera la nostra umanità tanto quanto Dio è più grande dell’uomo. Ma in noi vive Cristo, e il suo Spirito ama in noi: Non vivo io, ma vive in me Cristo (Gal 2,20); La carità di Dio è stata diffusa nei nostri cuori per opera dello Spirito Santo che ci è stato dato (Rm 5,5). Dunque, se Gesù Cristo è il carattere indelebile impresso dai sacramenti nelle nostre anime, carattere della sostanza di Dio Padre (Eb 1,3), Cristo è il grande amante in tutti noi. Egli è con noi la nostra capacità di amare. Non io, ma la grazia di Dio con me(1 Cor 15,19).

L’amore è il suo stesso Spirito che si diffonde nelle nostre anime quando non trova ostacoli, o quando li supera.
Ecco la radice della carità, ecco le sue propaggini: il carattere è la vigorosa e potente radice; le sue propaggini, turgide di linfa, sono la grazia operante e cooperante in tutte le sue forme: doni, virtù, frutti e azioni. In tutto Gesù Cristo, in tutto il suo Spirito. Questa è la presenza di Dio onnipotente negli uomini. Presenza grande e ineffabile! Conoscere questa presenza è conoscere la carità. ( Il Maestro dell’Amore, Discorso IV, La Carità)

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