Lettera Padre Agosto 2020

Lettera Padre Agosto 2020

Italy1.png Carissimi confratelli
 


 

 

 

 

“Questo libro grande in mano de’ grandi uomini che lo sponevano,

era il nutrimento di altri grandi uomini”.

 (A. Rosmini, Delle cinque piaghe della Santa chiesa,  n. 39). 

Nuova statua in legno del Beato Antonio Rosmini.

Scultore: Filip Piccolruaz, Ortisei (Bolzano)

Spedita il 25 luglio 2020

per la Parrocchia del Beato Antonio Rosmini

a Dar es Salaam, in ringraziamento per il 75°

della Missione Rosminiana in Est-Africa. 

 

CONSACRATI PERSEVERANTI

“Forse anche voi….?”. No. “..Tu hai parole di vita eterna” (Gv 6:67- 68)

Cari Padri, Fratelli, Suore della Provvidenza Rosminiane, Figli Adottivi, Ascritti e Ascritte,               

            vi raggiungo con una lettera per segnalare la raccomandazione accorata che ci viene dalla Congregazione per la Vita Consacrata. 

Il titolo è: Il dono della fedeltà e la gioia della perseveranza.  Orientamenti. Il testo in lingua inglese sarà diffuso tra due o tre mesi. Il tema riguarda l’uscita di religiosi dal loro Istituto.

 “Siamo di fronte ad una <<emorragia>> che indebolisce la vita consacrata e la vita stessa della Chiesa. Gli abbandoni nella vita consacrata ci preoccupano” (N.1).

Questo riguarda anche il nostro Istituto. Alcuni religiosi abbandonano l’Istituto. 

La preoccupazione induce anche noi rosminiani ad individuare delle indicazioni di cui tenere conto. 

La prima è ascoltare bene e guardare bene, come nel caso del medico di fronte al malato. “Chi ha l’onestà e l’umiltà di ammettere i suoi problemi permette di essere aiutato e accompagnato. Non è bene camminare da soli. (N.3).

La seconda riguarda <<la continua verifica della fedeltà verso il Signore, della costanza nel donarsi, dell’umiltà nel sopportare i contrattempi>>(ivi).

La terza indicazione chiede di recuperare il senso e il rispetto della disciplina, in quanto custodisce l’ordine della nostra vita ed esprime attenzione e premura per i confratelli. (ivi).

Attingiamo dal tesoro delle lettere del Padre Fondatore. 

Come esempio di accompagnamento verso un confratello in difficoltà, trovate, più sotto, il riassunto di 68 lettere scritte da Rosmini a don Michele Parma, un religioso rosminiano che, purtroppo, non ha perseverato. 

Se avesse accolto i suoi inviti all’umiltà, sarebbe rimasto nell’Istituto. Occorreva praticare di più l’umiltà, terreno dove può crescere bene la pianta della fedeltà. Questa, perseverando, produce i frutti della vita consacrata da vivere e donare con gioia. 

Ė molto importante conoscere la grande esperienza del Padre fondatore come direttore spirituale. Lo strumento principale, dati i tempi, è stata la corrispondenza epistolare. La sua cura ha dato risultati eccellenti, altrimenti non si spiegherebbe il numero di sacerdoti, religiosi e religiose che si sono rivolti a lui. In alcuni è maturata una santità evidente. A don Giovanni Battista Pagani ha scritto 155 lettere; a don Luigi Gentili 132, a don Michele Parma, 68. Quest’ultimo, tuttavia esce dall’Istituto, pur avendo ricevuto le stesse cure degli altri due. 

Siamo su un terreno inesplorabile, in quanto la libertà umana è quella variabile che non può essere trascurata. Molte raccomandazioni di Rosmini sono comuni nelle lettere al Parma e al Gentili. Ad ambedue egli scriveva di essere umili, di abbinare bene la vita fraterna e la missione educativa. Una testimonianza che ho letto, riguardo al Gentili, fu questa: “E’ un santo, ma è molto grande quello che lo dirige con le sue lettere”. 

Se le lettere di Rosmini non hanno avuto lo stesso effetto in don Michele Parma, non è detto che non possano fare del bene a noi, oggi. Proprio perché sono simili a quelle scritte al Gentili, possiamo ritenere, anzi, che anche queste sono un grande dono. 

Viene spontaneo andare col pensiero al Vangelo e prendere atto che Gesù ha rivolto le stesse parole a molte persone. Davanti alle sue richieste esigenti, solo alcuni lo seguirono, mentre altri si tirarono indietro. 

Tuttavia, tutti furono strumenti per la rivelazione dell’amore del Padre attraverso le parole e le azioni di Gesù.  Non avremmo le sue risposte illuminanti senza le domande degli scribi, di Filippo, di Tommaso, la richiesta della mamma di Giacomo e Giovanni, i dubbi di Nicodemo, la domanda del sommo sacerdote, la domanda di Ponzio Pilato.    

Anche nel nostro caso, la risposta che Rosmini scrisse a don Michele circa la propria accettazione della condanna delle Cinque piaghe ci impedisce di dimenticarlo. Senza la sua sofferenza verso Rosmini trattato così male, non ci sarebbe stata quella lode sublime di Rosmini alla Provvidenza: “Vi ringrazio che vogliate partecipare alle strane e per poco incredibili vicende per le quali mi conduce la Provvidenza….”. (Il testo completo è riportato più sotto”). Anche don Michele, nonostante che sia uscito, è stato un dono per circa 10 anni. 

Lettere di Antonio Rosmini a Michele Parma.

Nasce nel 1802 a Galliate (Novara). Si può dire che è quasi coetaneo di Rosmini, con soli 5 anni di differenza. Nel 1825 completa gli studi di Belle Lettere e Filosofia, nel 1831 è istitutore dei quattro figli del conte De Cardenas a Valenza, fino al 1843. Ė presentato a Rosmini da mons. Scavini, vicario generale della Diocesi di Novara.

 Primo periodo, prima dell’entrata nell’Istituto.

1 gennaio1831. Rosmini, letta la lettera di questo istitutore letterato e filosofo ventiseienne, lo definisce “anima fervida, generosa ed aperta, una promessa per l’Italia e il cattolicesimo”.

30 gennaio, 11 e 27 marzo. Tre lettere interessanti nelle quali Rosmini spiega la propria visione filosofica, alla luce del Nuovo Saggio pubblicato da poco. Esprime la convinzione che la propria filosofia avrà futuro, ma occorre che ci siano “delle menti forti, e degli animi nobili e nuovi. Ella, signor Parma, mi sembra che avrà questi caratteri”.

5 maggio: Rosmini loda uno scritto del Parma: “come una stella che annunzia un bel giorno”.

4 settembre. Rosmini accenna all’impossibilità di trovare per il prof. Parma una collocazione come istitutore in qualche famiglia del Trentino. Gli comunica che sta scrivendo il Trattato sulla coscienza.

1° febbraio. Il Parma non è più in casa De Cardenas, e nemmeno in un’altra. Cerca un nuovo impiego. Il Mellerio, interpellato da Rosmini, afferma di non poter suggerire una Casa che stia bene al Parma. 

15 aprile: nulla di nuovo per un impiego stabile. 6 luglio: lo sconsiglia dall’iniziare un giornale se non ha collaboratori validi. 

3 agosto. Scrive che gli sembra che il Signore lo chiami a servirlo come sacerdote. Rosmini gli espone i requisiti e gli consiglia un periodo di intensa meditazione. Ė una lettera chiara ed esigente, di carattere vocazionale.

18 agosto. Si meraviglia che il Parma stia già per iniziare un giornale e gli dà alcuni consigli. 

4 ottobre: ancora a proposito del giornale. 

10 dicembre. Gli chiarisce la distinzione tra la natura del sapere naturale e quello soprannaturale. Ecco una lettera che fa un gran bene a chi la legge. 

12 gennaio 1833. Gli raccomanda di non abbandonare lo studio della filosofia: “Il mondo ne ha bisogno, e lo studio di essa esige tutto l’uomo”.

27 gennaio. Lo ringrazia di uno scritto religioso, nel quale è nominato. Aggiunge: “Il dogma del peccato originale e quello della grazia sono i più incredibili agli uomini superbi e voluttuosi”. Le pagine numerose e luminose scritte da Rosmini su questi due temi sono di assoluta attualità e di grande aiuto per evitare gravi danni alla teologia e alla vita cristiana. 

21 marzo. Scrive cha ha letto con interesse le Melodie religiose del Parma. Lo ringrazia per aver ricevuto il libro Le mie Prigioni stampato da Marietti. “All’istante che mi venne recato, mi vi buttai sopra con avide brame; non ne sollevai il capo e l’occhio se non quando, con mio gravissimo dolore mi chiamarono a pranzo”. 

Nota. L’opera, stampata nel novembre 1832, ebbe così tanta fortuna presso i contemporanei dello scrittore che divenne il libro italiano più famoso e letto nell’Europa dell’Ottocento. Il primo ministro  austriaco Metternich ammise che danneggiò l’immagine dell’Austria più di una guerra perduta, contribuì a volgere verso i primi moti risorgimentali italiani molte simpatie negli intellettuali europei. Nella descrizione dei lunghi anni di prigionìa si rivelano al lettore i tesori spirituali che si ricavano dal dolore; la bontà, l’amore e l’umanità sono presenti anche dove non ci si aspetta che esistano. Pellico inoltre mostra sempre di avere una grande fiducia negli uomini e in Dio. 

6 aprile. Chiede se lo può aiutare ad avere libri dalla Francia.

25 aprile. Lo ringrazia per avergli ceduto un libro importante. Gli raccomanda di coltivare una fede solida.

10 luglio 1834. Rosmini ha libri suoi in prestito e lo ringrazia.

30 settembre. Il Parma ha pubblicato nel Raccoglitore un articolo sul Nuovo Saggio di Rosmini. Siccome ha scritto che una delle affermazioni è falsa, Rosmini, con umiltà, non ribatte, ma fa presente che dovrebbe approfondirla meglio.

17 luglio 1835. Apprezza la sua eloquenza nello scrivere, ma raccomanda la profondità della scienza: “questa richiede molti particolari ed incredibile esattezza e filatura di pensiero”. Leggendo che il Parma ha deciso di avviarsi al sacerdozio, gli raccomanda di “considerare la chiamata al sacerdozio una chiamata alla santità”. 

20 novembre 1836. Lo rassicura che i princìpi della verità e della religione sono le due stelle con la luce delle quali si può attraversare un mare burrascoso. 

12 ottobre 1842. Dalle parole di Rosmini, in risposta ad una lettera di Michele, sembra di capire che questi abbia attraversato un periodo difficile e abbia compiuto qualche scelta sbagliata. Nell’appello all’umiltà che gli rivolge risuonano le stesse parole della “regola di condotta” adottata anni prima proprio da Rosmini.  Siccome il Parma chiede quali siano le Regole dell’Istituto della Carità, Rosmini gli presenta i requisiti e le indicazioni: povertà di cuore e umiltà, preghiera per ottenerla. Il fondamento è la salute eterna dell’anima e la perfezione morale di quest’anima. L’obbedienza e l’indifferenza sono strumenti per la carità del prossimo, universale e ordinata.

 17 gennaio 1843. Gli scrive che può venire a Stresa per qualche tempo.

23 febbraio. Il Parma scrive che non sta tanto bene, e che gli sembrano lunghi due anni di Noviziato. Rosmini risponde ribadendo il concetto della preminenza della vita contemplativa, “non abbandonandola se non quando urge la carità del prossimo guidata e capitanata dell’ubbidienza. <<Dio solo>> è il nostro motto, perché Dio solo è il nostro bene”. “La semplicità dell’oggetto: noi dobbiamo cercare, cioè il solo bene morale. La sola santità maggiore dell’anima nostra è quel principio sicurissimo che deve guidar la nostra vita”. 

3 marzo. Sta preparando i bagagli per inviarli a Stresa per darsi tutto a Dio. Rosmini gli scrive che questa è “una delle risoluzioni di cui l’uomo non si pente”.

15 aprile. Non sta bene; tarda a partire. Rosmini lo tranquillizza e lo incoraggia.

Secondo periodo: dal noviziato fino al 31 luglio 1850.

14 giugno 1843. Arriverà tra pochi giorni. Rosmini loda il Signore. “Io spero sinceramente che otterrà anche la grazia della santa perseveranza mediante umili e continue preghiere, la grazia voglio dire, di vincere quelle tentazioni contro il santo proposito che il nemico del bene e le passioni umane non mancano mai di suscitare, talora anche con terribile minacce, in quelli che fanno i primi passi nella religione”. 

9 dicembre. La lettera è indirizzata, da Stresa, al Chierico Michele Parma a Domodossola. Ė una lettera che merita di essere letta perché spiega bene la natura dell’essere ideale, il lume della mente. 

Ecco, come ho scritto sopra, uno dei doni lasciatici da Rosmini tramite il Parma. A volte basta una sola frase per aprire la mente su una verità che della quale si era alla ricerca. A Giuseppe Bozzetti, giovane appena laureato in giurisprudenza, bastò leggere una pagina di Rosmini nella Filosofia del Diritto per afferrare finalmente la verità sulla persona, che cercava e non trovava, e, addirittura, per voler diventare rosminiano.  Anche questa pagina scritta al Parma è un grande dono. 

9 gennaio 1845. Rosmini risponde con cordialità agli auguri per il nuovo anno.

6 aprile. Altra lettera che chiarisce in modo magistrale l’ordine dell’essere.

14 maggio. In occasione del Diaconato lo sprona ad imitare santo Stefano e san Lorenzo.

13 dicembre. Lettera splendida sulla carità intellettuale esercitata da don Michele verso diciotto alunni del Collegio Mellerio.  

23 gennaio 1846. Lettera entusiasta di approvazione dell’operato di don Michele.

13 aprile. Gli raccomanda di leggere la Teodicea.

13 luglio. Gli dà il permesso, d’accordo con il Padre Provinciale, di trascorrere 15 giorni di vacanza presso la contessa Roero. 

1° dicembre. Gli consiglia di curare molto la dialettica, più del sentimento, nei suoi dialoghi letterari.

1° febbraio 1847. Non aderisce alla richiesta di mandargli lo scritto anonimo polemico contro di lui. Risponde invece alla richiesta di parere sul sentimento nazionalistico che cresce in quei mesi.  Per alcuni “l’unica cosa è liberare l’Italia dalla servitù degli Austriaci. Dal quale principio logicamente procede che gli si può dare tutto, anche l’anima, per ottenere quell’uno necessario. Tutti i mezzi sono buoni: bugie, calunnie, artifizi, sommovimento di passioni popolari, adulazioni, latrati, seminazioni di odio e di astio, soprattutto nel clero, schiavitù della Chiesa, provocazioni alla violenza e alla guerra, ecc. tutto è buono, tutto è santo, tutto è perfettamente cristiano per ottenere il grand’uno del nuovo cristianesimo, del loro nuovo evangelio”. Più sotto, su questo stesso tema, troviamo un’altra lettera.

2 febbraio. Lo invita a studiare la Somma di San Tommaso: “E’ il maggior e il più utile studio che si possa fare: è il più grande monumento ella filosofia. E questa vi è ministra alla teologia; onde se l’ancella tanto vi grandeggia, che sarà a dir della padrona?”.

8 aprile1848. Gli dà il permesso di fare un pellegrinaggio al Sacro Monte di Varese. Siccome il vescovo di Ivrea invita Rosmini a cooperare ad un giornale politico-religioso che si stampa a Torino, invita don Michele ad aiutarlo con qualche articolo. 

3 giugno. Se don Michele è edificato dai giornalisti, Rosmini risponde che ne è scandalizzato, perché non vede in essi la religione di Cristo. Gli manderà una copia delle Cinque Piaghe appena ne avrà una disponibile. 

6 luglio. Gli permette di fare le vacanze. Afferma che il Parma poteva essere meno caustico riguardo al giornale L’Armonia, che “è uno di quei giornali che vanno piuttosto incoraggiati e interpretati favorevolmente che avviliti con rigorose censure. A chi ci da il bene non domandiamo troppo rigidamente il meglio. – Il vostro P. Provinciale è in visita a San Michele. Egli fa tutto ciò che può. Non pretendete troppo neppure da noi, perché siamo deboli e facciamo il possibile. Statevi allegro sempre, senza pensar troppo alle vostre e alle altrui miserie”.

16 settembre 1849. Ė la lettera meritatamente ben conosciuta. Basterebbe da sola, afferma qualcuno, a dichiarare santo Rosmini.

“Vi ringrazio che vogliate partecipare alle strane e per poco incredibili vicende per le quali mi conduce la Provvidenza, a cui non fallisce giammai l’immutabile consiglio. Io, meditandola, l’ammiro; ammirandola, l’amo; amandola, la celebro; celebrandola, la ringrazio; ringraziandola, m’empio di letizia. E come farei  altramente se so per ragione e per fede, e lo sento coll’intimo spirito che tutto ciò che si fa, o voluto o permesso da Dio, è fatto da un eterno, da un infinito, da un essenziale Amore? E chi potrebbe corrucciarsi all’amore?”.

Conclude: “L’ubbidienza vi faccia una sola persona coi superiori; la carità vi faccia una sola persona con i confratelli”. 

9 ottobre. Ritorna a raccomandare l’accettazione della condanna delle Cinque piaghe. 

8 febbraio 1850. Ancora una volta insiste su questo tema.

1° giugno. Lo invita a curare ancora meglio uno scritto in forma di dialogo. Aggiunge alcune indicazioni che rivelano quanto fa egli stesso, “senza temere quella fatica che facciamo noi stessi nel fare e rifare, del pensare e del pentirsi di quello che si aveva concluso, dello scrivere e del cancellare: ché senza questo purgatorio, le anime delle scritture (degli scrittori, ndr), difficilmente giungono alla vita eterna”.

3 luglio. Lo incoraggia a proseguire nella fatica dell’insegnamento. La vita è una milizia, il nostro capitano è Gesù Cristo, tutto si può superare con Lui. 

11 luglio. Gli comunica che sta scrivendo il discorso sugli Studi dell’autore

22 luglio. Ha ricevuto il fascicolo de La Civiltà Cattolica. Probabilmente v’era qualche pagina non favorevole a Rosmini. Questo è il suo commento: “Che volete? Bisogna lasciare che ciascuno dica il suo parere, bramando solo che sia sincero”. Lo incoraggia, inoltre, nella pazienza quando si scrive un’opera, riferendogli che il Manzoni aveva ricopiato e corretto ben 17 volte un proprio scritto.  

Ultimo periodo: la crisi e l’uscita. 

31 luglio. Qualche nuvola scura inizia a presentarsi nel cielo delle relazioni tra i nostri due. Rosmini approva e loda lo zelo di don Michele per l’organizzazione degli studi nel Collegio di Domodossola. Ė propenso a dargli mano libera per il prossimo anno, promettendo anche rinforzi nel personale. Tuttavia, lo mette in guardia dal perfezionismo, facendogli notare che il collegio, in quel momento, “è probabilmente il migliore in tutto lo Stato del Piemonte. Abbiamo due occhi per osservare i mali con quello sinistro, e i beni con quello destro. “Compatire, compatire, compatire; migliorare, migliorare, migliorare”. 

5 settembre.  Cerca di dissuaderlo dall’andare in vacanza dalla famiglia Roero. C’è rischio di dissipazione. Non sarebbe un buon esempio per i confratelli.

6 ottobre. Gli permette di associarsi ai collaboratori per la ristampa dell’opera della Crusca. Lo informa degli scritti che sta preparando. “Voi mi esortate a scrivere la Teosofia, e a scriverla sinteticamente: è cosa grande, così grande da far paura e ci vuole a riuscirci uno speciale aiuto di Dio. La Logica non la seppi mantenere nei confini di un compendio. Ora sto pensando in che modo possa pubblicare l’Introduzione alla Filosofia”.

Nota. Il prof. PierPaolo Ottonello, grande studioso del pensiero rosminiano, che ritiene la Teosofia  di Rosmini un’opera fecondatrice di  millenni, scrive: “La Teosofia di Rosmini deve essere considerata l’unica nuova summa di quella autentica scolastica moderna che propriamente appartiene alla <<filosofia perenne>>. (Attualità e inattualità di Rosmini, 1991, pag. 66). 

24 ottobre. Esprime quattro osservazioni critiche sul nazionalismo, che pretende di coinvolgere la Chiesa senza riguardo alla sua universalità.

Nota.  Tema quanto mai attuale, per questo riporto alcune righe significative.  (Cfr. La Civiltà Cattolica, 20 giugno 2020: Contro il nazionalismo religioso, Joseph Lobo, gesuita indiano di Bangalore.). L’autore distingue opportunamente tra il patriota “orgoglioso per quella che il suo paese fa”, dal nazionalista che si vanta del suo paese “qualunque cosa faccia”. Vi si legge che molti capi pregavano, compreso Hitler, ma quale furono i fatti, diversamente da Gandhi che pregava e digiunava, insieme ad altri, prima di ogni azione pubblica, “per liberare se stesso e i suoi seguaci dalla rabbia, dall’avidità e dalle alle schiavitù interiori”. “Abramo Lincoln richiamava i buoni cittadini, i patrioti a confessare i loro peccati politici”.  La conclusione dell’articolo è una conferma della filosofia rosminiana, che vede l’uomo costituviamente aperto all’infinito. I nazionalisti sfruttamento purtroppo questo anelito per i propri scopi. Quindi “il nazionalismo religioso-culturale di tutti i tempi esige una risposta teologica. Infatti, la religione può raggiungere i livelli profondi della realtà umana e indurre una trasformazione a livello sia personale che strutturale. Gli ideologi del nazionalismo religioso-culturale hanno sempre compreso molto bene che il livello fondamentale dell’essere umano è quello religioso, per il fatto che la sua apertura verso l’infinito gli permette di trascendere il suo stesso sé, e quindi hanno prodotto molti “martiri” per la loro causa, mentre torturavano e uccidevano altre persone. Questo può essere contrastato soltanto per mezzo di un impegno che nasca da aspirazioni religiose ancora più profonde e autentiche. Qui si radica l’importanza del ruolo della religione e della teologia”. 

17 dicembre. Questa lettera è dettata “per risparmiare gli occhi che ho un po’ ammalati”. Gli raccomanda longanimità e pazienza, specialmente con il padre rettore. “Quando non si può fare una cosa occorre dire che Iddio non lo vuole; e quando Iddio non lo vuole, occorre benedirlo e accontentarci”.

28 febbraio 1851. Gli indica un passo della Teodicea, dove egli precisa che Dio opera sempre creando, l’uomo, invece, modificando. Poi gli raccomanda la dolcezza nella fraternità, considerandosi tutti sempre nel legame 

comune davanti a Dio.  

7 agosto. Lettera di carattere ascetico. Gesù è il nostro capitano, che ci fornisce le armi adatte per vincere i difetti e rafforzare le virtù, specialmente la perseveranza nelle prove e la pazienza. Gli consiglia di venire a Stresa da Domodossola, però facendo un tragitto più lungo, a tappe: “facendo un devoto pellegrinaggio a Nostra Mamma di Re, passando poi dalla Valle Cannobina”. 

25 dicembre. Incoraggia don Michele a scrivere un manuale di filosofia, sperando poi che il Governo lo approvi per l’uso nelle scuole. Passando alle difficoltà di relazione che egli manifesta: “non aduliamo noi stessi, non creiamo noi a noi stessi dei mali insuperabili; sono tutti superabili con la grazia di Dio”. Rosmini gli chiede di aprir gli occhi sui propri difetti. Non sono pochi quelli che guardano più ai difetti degli altri che ai propri. Quando una persona ha difficoltà di relazione, difficilmente attribuisce questo a propri limiti e responsabilità. Fa un’azione simili a chi usa un cannocchiale per notare i difetti degli altri. Quando invece si tratta di osservare i propri lo capovolge, così risultano molto rimpiccioliti.   

3 gennaio 1852. La lettera è volta ad aggiungere cinque proposizioni a quanto scrittogli da don Michele, sul metodo di insegnamento che egli pratica. Si tratta di chiarimenti importanti. La quinta: “la difficoltà principale consiste nel ritrovare o formare i vivi strumenti, cioè uomini pieni di carità, di sacrificio e d’abilità i quali usino bene dei buoni metodi. Non si deve disperare: è una viltà il perdersi di coraggio, è indegno di un servo di Dio il desistere dall’opera buona quando non si può ottenere tutto; occorre anzi conservare in tali imprese un animo inalterabile, costane ed egualmente perseverante”. 

10 gennaio. Fa notare che non c’era bisogno che don Michele rispondesse risentito alla lettera del 3 gennaio, mentre Rosmini aveva espresso “ingenuamente la mia opinione, ed entro una amichevole discussione. Voi che eravate discreto e ragionevole, siete dunque diventato ad un tratto tanto intollerante, da montare in collera per la minima opposizione al vostro pensare? Ė possibile un amor proprio così suscettibile e anzi così smisurato? Rileggete la mia lettera con tranquillità d’animo e vedrete se è vero sì o no, che vi siete ingannato nell’intenderla”. La lettera prosegue mostrando che non è sufficiente la teoria di don Michele, che “si riduce ad una parola vaga e generalissima: <<conviene dare un’istruzione seguendo il buon senso>>. “Dov’è la modestia? Dov’è la diffidenza di sé stesso, dove l’umiltà cristiana, e specialmente quella del sacerdote e del religioso?”. 

14 gennaio. Ancora sulla questione del metodo <<del buon senso>>. Don Michele pensa già a farsi sostituire, ma Rosmini risponde che non c’è chi ha il titolo richiesto. Questa richiesta improvvisa di cambiamento è dovuta probabilmente al fatto che il programma presentato da don Michele non era stato approvato dal governo civile, ma non è giusto scaricare il proprio malcontento sui superiori religiosi. Gli permette di assentarsi dall’insegnamento per alcuni giorni. Gli ribadisce un concetto fondamentale: “La natura, mio carissimo, non diventa mai più forte della nostra propria volontà, nelle cose che spettano ai nostri doveri, perché l’uomo è dotato di libero arbitrio, e il cristiano, oltre a ciò, ha l’orazione, nella quale perseverando,ottiene quello che gli abbisogna, avendone l’infallibile promessa di Gesù Cristo. Quanto poi alla domanda, a cui voi ritornate, d’uscire dall’Istituto, né io posso concederlo, né voi stesso, a mente tranquilla, vi chiamereste poi d’un passo così contrario allo spirito di Dio. Desidero bensì che si faccia tutto ciò che si può per la vostra conservazione. Si faccia quello che è possibile, e il resto sopportiamolo per i nostri peccati e per amore di Gesù Cristo che ha patito più di noi e per noi, e che non lascia senza mercede nessuna pena e nessuna fatica, di quelle che si fanno per suo amore”. 

Chi ha curato l’Epistolario completo, ha aggiunto una nota: Il detto Professore ottenne poi di uscire regolarmente dall’Istituto, e tentò inutilmente la prova di ritornarvi, ma si mantenne sempre in buona relazione come ascritto al medesimo, e morì in pace dopo alcuni anni a Milano.

5 maggio. Don Michele aveva accennato ancora a questioni pedagogiche, ma Rosmini gli scrive che gli sta a cuore maggiormente la sua perseveranza. Non gli darà l’incarico dell’insegnamento, ma lo invita ad essere un buon religioso. 

14 maggio. Don Michele ha scritto che è pronto a fare bene. Rosmini si congratula con lui e ringrazia il Signore.  Gli permette di restare ancora un po’ a Torino presso la Contessa Roero, che, a quanto è dato capire, ha svolto un buon ruolo: “I savi consigli che da vera amica v’ha dato raddoppiano la mia venerazione per lei”. 

13 luglio. Don Michele si trova a Viareggio, presso la famiglia Arconati. Rosmini ha inviato lui come sacerdote presso quella famiglia, dietro loro richiesta, anche per preparare alla Prima Comunione un loro figlio. Aggiunge l’invito, rivolto anche a sé stesso, ad essere umili: “demolire il fastidioso edificio dell’amor proprio, e saremo felici a dispetto di tutto ciò che, non essendo nostro, non è in nostro potere”.  Nutre la fiducia che don Michele sarà un religioso ardente, anche fuori delle nostre case.

29 luglio. Don Michele non ha gradito la frase sull’amor proprio. “Tornerò a Stresa disingannato di tutto, anche dell’Istituto della Carità, ci verrò a morire negli spasimi di una lenta e crudelissima agonia”. Rosmini lo invita a calmarsi.

29 settembre. Don Michele è ancora con la famiglia Arconati. Rosmini risponde che non ritiene praticabile l’ipotesi di <<insegnare a leggere dalle intere parole e non dalle lettere o dalle sillabe. Quello che però gli interessa di più è che egli ritorni, e lo scrive con queste parole: “Bramerei di sapere quando potrà esser il vostro ritorno”. Arriva fino a questo punto la pazienza e la condiscendenza di Rosmini verso di lui. 

9 ottobre. Rispondendo ad una lettera di don Michele scritta “con facilità all’ira e anzi alla furia”, Rosmini è indotto necessariamente a chiarire alcuni punti. Deve cecare di evitare questi difetti. Difende i confratelli, compreso lui stesso, che invece don Michele mette dopo “amici che Dio gli ha dato ultimamente”. Infatti, proprio per amicizia ha scelto lui per “istruire il figlio della marchesa Arconati”, e ora invece don Michele afferma che non ritorna per nessuna ragione.  “Bel frutto che ha cavato il vostro spirito da questo sollievo che vi ho procurato! Non prendo alla lettera le vostre parole, spero che siano solo uno sfogo momentaneo. Non dubito che ritornerete a quell’asilo sicuro per l’anima e per il corpo che Dio vi ha procurato in questo mondo”.Gli permette di restare lì ancora un poco. 

15 ottobre. Don Michele scrive che trova una difficoltà a ritornare peggiore del nodo gordiano. Rosmini gli suggerisce di prendere la spada e tagliarlo, e questa è la spada di Gesù Cristo. “Mettetevi ai piedi di Gesù Cristo, e ai suoi piedi con umiltà e desiderio di piacergli e di essergli fedele; leggete un solo capo del libro dell’Imitazione di Cristo, quello che vi esce aprendo il libro, e poi rientrate in voi stesso e quivi cercare le vere ragioni della difficoltà e tosto questa sarà vinta. Ricordatevi che per la grazia di Gesù Cristo non c’è mai alcuna difficoltà insuperabile a fare il proprio dovere. V’aspetto dunque senz’altro quando sarà giunto costà il signor Marchese, come sono inteso colla famiglia in cui vi trovate”.

  In questa lettera, che è l’ultima, perché don Michele né risponde, né ritorna, l’indicazione chiara di Rosmini è l’umiltà. 

Davanti a questo “ordine” restiamo quasi sorpresi, ma è questo il modo adatto di aiutare ad affidarsi a Dio. Stupisce addirittura l’indicazione di aprire una pagina qualsiasi, non dico del Vangelo, ma dell’Imitazione di Cristo! 

Rosmini aveva scritto anche a don Luigi Gentili parole forti, contento di essere ritenuto “pazzo” per Gesù Cristo.  Una vera sfida, nella lunga lettera del 22 giugno 1830, che appunto il Gentili accettò, decidendo di entrare nell’Istituto. 

Alcune indicazioni degli Orientamenti.

La traduzione in lingua inglese non è ancora pubblicata, quindi non abbondo qui nelle citazioni, che poi potrebbero risultare non perfettamente coincidenti con la versione inglese ufficiale della Congregazione della Vita Consacrata. 

Gli Orientamenti raccomandano ai singoli religiosi, oltre all’umiltà, e alla fermezza interiorela coerenza, la quale a sua volta richiede la disciplina. Questa parola era quasi dimenticata, dobbiamo ammettere.

Anche la parola gratitudine è diventata rara. Guardando agli abbandoni avvenuti negli ultimi anni da parte di rosminiani sacerdoti si può sperare che abbiano trovato, grazie al vescovo che li ha accolti, una serenità. Una domanda rimane in sospeso, riguardo, appunto, alla gratitudine. Ne ho già scritto nella lettera natalizia del 2019. Gratitudine auspicabile, nel loro caso, verso l’Istituto che li aveva accolti e formati per vari anni, con grande impegno di persone e di risorse economiche. Che cosa pensare, appunto, di chi si allontana, non dico senza chiedere “scusa”, ma nemmeno senza dire un “grazie”? Eppure, vanno a vivere in una diocesi, dove potrebbero mettere da parte qualche piccolo dono da inviare all’Istituto. Qualcuno lo ha fatto, con nostra soddisfazione.   

Riguardo alle comunità, la raccomandazione principale è di attivare un aiuto di accompagnamento-discernimento. Al n. 60 viene citata la raccomandazione che era già nell’Istruzione sulla Vita fraterna, del 1994: “In una comunità veramente fraterna, ciascuno si sente corresponsabile della fedeltà dell’altro; ciascuno dà il suo contributo per un clima sereno di condivisione di vita, di comprensione, di aiuto reciproco; ciascuno è attento ai momenti di stanchezza, di sofferenza, di isolamento, di demotivazione del fratello, ciascuno offre il suo sostegno a chi è rattristato dalle difficoltà e dalle prove”(n.57).

Rimanere centrati, saldi in Dio.

Senza l’unione intima, sacramentale con Gesù, pietra  angolare, non c’è perseveranza nella fedeltà.

 61. “La. storia di ognuno è intessuta nelle narrazioni delle esistenze di fratelli e sorelle con i quali si condivide una con-vocazione che non è mai casuale, ma lasciata al provvidente disegno di Dio che trasforma le storie di ciascuno in un condiviso percorso di ricerca del suo volto. Nel quotidiano dei consacrati e delle consacrate portare i pesi gli uni degli altri (Gal 6,2) significa accettare le sofferenze, i disagi, i malesseri. Si tratta concretamente di fare nostro l’invito di Papa Francesco, (Cfr. Gaudete et exsultate, n. 112), a «rimanere centrati, saldi in Dio che ama e sostiene. A partire da questa fermezza interiore è possibile sopportare, sostenere le contrarietà, le vicissitudini della vita, anche le aggressioni degli altri, le loro infedeltà e i loro difetti: Se Dio è con noi, chi sarà contro di noi? (Rm 8,31). Questo è fonte di pace che si esprime negli atteggiamenti di un santo. Sulla base di tale solidità interiore, la testimonianza di santità, nel nostro mondo accelerato, volubile e aggressivo, è fatta di pazienza e costanza nel bene. È la fedeltà dell’amore, perché chi si appoggia su Dio (pistis) può anche essere fedele davanti ai fratelli (pist6s), non li abbandona nei momenti difficili, non si lascia trascinare dall’ansietà e rimane accanto agli altri anche quando questo non gli procura soddisfazioni immediate».

Nota: Su questo tema della “centratura in Dio” aggiungo qui, alla raccomandazione di papa Francesco, quella di un altro gesuita, padre Nicolàs, preposito generale fino a pochi anni fa, e ora defunto.  Aveva preparato una lettera ai confratelli, ma non l’aveva inviata. Forse pensava che sarebbe stata inutile? Ora è pubblicata su La Civiltà Cattolica, luglio 2020. Ritengo anch’io che non sia inutile segnalarne brevemente alcuni passi. Il titolo è “Dalla distrazione alla dedicazione”, ed egli elenca alcune distrazioni principali.  <<Raggrupparsi sociale, etnico o culturale>>. <<Rivendicare uno stato di eterna “vittima”>>. <<Divisione tra quelli al servizio dei poveri e quelli che servono le èlite>>. <<Il perfezionismo come distrazione narcisistica>> dal quale qualcuno, dedito a celebrare il proprio successo,  si riprende solo durante il breve tempo della Settimana Santa. Un’altra, simile, è <<la distrazione della popolarità>>. Un’altra distrazione è dovuta all’Io, alla quale non cedere: <<noi persone consacrate abbiamo preso un impegno di trovare la volontà di dio insieme, come un corpo, come una comunità di fede, di missione, di amore. La cattiva notizia è che questo è molto difficile, particolarmente per i più “visionari”, i più intelligenti, i più dedicati ad una causa importante. E’ sempre più facile andare da soli, secondo un’ispirazione personale (soprattutto mentale o emozionale)>>. Un’altra viene dai media: <<vogliamo informazione o comprensione? Velocità o profondità? Essere centrati in Cristo o navigare nel web>>? Conclude con una frase che aiuta molto: <<Queste distrazioni ci colpiscono quando la nostra formazione intellettuale non termina nella preghiera, adorazione, nel ministero>>. Per questo fa un lungo elenco di santi gesuiti e un appello a imitare Sant’Ignazio nel suo “retto sentire nella Chiesa>>. 

Fedeltà e perseveranza: riscoprire il senso della disciplina. 

N. 62.  “L’Istituto non può rimanere spettatore di fronte a situazioni che violano apertamente le norme fondamentali dello status delle persone consacrate”. 

N. 63. “Ė urgente, soprattutto a livello di formazione iniziale, riscoprire il significato e le implicazioni di una tradizione dei religiosi: la disciplina. Le regole sono risorse preziose di formazione alla fedeltà avvalorata dal nostro stare insieme di fronte al Signore. Si riscopre così la fedeltà nella perseveranza 

come espressione di solidarietà della vigilanza che porta i pesi gli uni degli altri (cf  Gal 6,2)”. (nn.63-64).

La terza parte degli Orientamenti tratta la separazione dall’Istituto. 

Il n. 65, schematizza e guida tutta la modalità, fino al n. 98. L’aumento dei religiosi che si rendono irreperibili ha indotto al Motu proprio “Communis vita” e chiede un esame schietto di un fenomeno che ha troppe somiglianze con la cosiddetta “società liquida” e con la “cultura del provvisorio”, del timore delle “scelte irrevocabili”. 

E’ necessario aggiungere che per il nostro Istituto esiste un voto speciale emesso contestualmente alla professione perpetua. Se, purtroppo, qualcuno poteva considerarlo una caratteristica non essenziale, davanti a questi Orientamenti sul grande numero di religiosi che non riescono a vivere la fedeltà e la perseveranza, è necessario riflettere. La formula della professione perpetua è chiara: “Inoltre, prometto di non cercare dignità o ufficio, sia nell’Istituto che fuori di esso; e solo per obbedienza ai superiori accetterò eventuali cariche. Faccio questo voto con l’intenzione di vivere libero da ogni ambizione, in umiltà, semplicità e disponibilità”. (RdV, n. 62). Sull’ambizione, anche n.63, 113, 254). Oso fare un paragone. Se uno sposo o una sposa promette fedeltà, ma non si premura di conservarla, manca gravemente. Altrettanto si può ritenere riguardo ad un religioso o una religiosa nei confronti di Dio e dell’Istituto. Se un religioso non si mantiene libero dall’ambizione, ma vive coltivando relazioni che potrebbero favorire l’accesso ad “una dignità o ufficio, sia nell’Istituto che fuori di esso” manca gravemente. Si potrebbe quasi dire che è nell’Istituto apparentemente, ma non realmente. Questa ipotesi può sembrare esagerata, ma occorre tenere conto dell’insistenza del padre fondatore su questo punto. Troviamo la sua autorevole presa di posizione nella quarta Massima, al n. 16, nel Memoriale della prima probazione, n. 58, n. 59, n. 70; nelle Regole Comuni, n. 64. Nelle Costituzioni troviamo espressioni chiare e addirittura perentorie, quando tratta dell’umiltà, nei nn. 522-525. Anche dove tratta degli dell’indifferenza e degli uffici, cioè degli incarichi: nn. 49-55; 104, 598, 602, 603,604. 

Aggiungo anche l’indicazione di un brano riguardo alla parte terza degli Orientamenti: La separazione dall’Istituto. Lo troviamo nell’Ufficio delle Letture del mercoledì della XIV settimana del Tempo Ordinario. 

Coloro che si trovano al di fuori, lo vogliono o no, sono nostri fratelli.
“Fratelli, vi esortiamo ardentemente a questa carità, non soltanto verso i vostri compagni di fede, ma anche verso quelli che si trovano al di fuori, siano essi pagani che ancora non credono in Cristo, oppure siano divisi da noi, perché, mentre riconoscono con noi lo stesso capo, sono però separati dal corpo. Fratelli, proviamo dolore per essi, come per nostri fratelli. Cesseranno di essere nostri fratelli, quando non diranno più «Padre nostro» (Mt 6, 9). (….). Vi scongiuriamo, dicevo, per i deboli, per i sapienti secondo la carne, per gli uomini rozzi e materiali, per i nostri fratelli che celebrano gli stessi sacramenti anche se non con noi, ma tuttavia gli stessi; per i nostri fratelli che rispondono un unico Amen come noi, anche se non con noi. Esprimete a Dio la vostra profonda carità per loro”. Dal «Commento sui salmi» di sant’Agostino, vescovo (Sal 32, 29; CCL 38, 272-273).

Conclusione.

Nei momenti più difficili occorrono persone ancora più responsabili. Chi ha una visione più chiara della strada da percorrere la trasferisca anche in scelte condivise. Chi ha l’incarico della formazione e della cura dei fratelli senta che questa, già di per sé, è una missione completa, come quella dei genitori che hanno cura del bene integrale dei figli. La pratica della vita consacrata rosminiana ha ricevuto l’imprimatur della santità in Antonio Rosmini. Pertanto, la fedeltà alla nostra vocazione, la gioia della perseveranza siano i passi quotidiani del cammino di ciascuno e di tutti, insieme.

 Chi offre al mattino, quel poco che ha, in unione al Sangue di Gesù, si troverà, alla sera, a gioire di quanto il Signore ha operato con lui in quelle ore.  

Preghiera.

Ecco la preghiera che padre Giuseppe Bozzetti recitava: “Padre, ti offro tutto me stesso e il mio sangue. Tu sai veramente quello che sono capace di fare. Lo sai meglio di me. Accetta quanto è nelle mie povere forze di adesso, ma aggiungi grazia e forza perché io riesca ad offrirti molto di più, fino all’ultimo sacrificio. Amen”. 

Usiamo anche, come giaculatoria, le parole di Rosmini negli Affetti spirituali: <<E pur rapito e trasformato in Dio, con Dio e in Dio offrir Dio a Dio, con sempiterna gloria e onore di Dio>>. Risuona qui la mistica di san Bonaventura: <<ogni affetto del cuore sia integralmente trasformato e trasferito in Dio>> (Ufficio delle Letture, 15 luglio). 

Eccoci, Rosminiani: già dal mattino presto, in piedi, centrati in Dio, donandosi a Lui fino al sangue, offerto insieme a quello di Gesù.  Quale problema ci potrà togliere la fedeltà e la perseveranza nelle ore di una giornata che inizia così?  Non solo non ci fermerà, ma sarà come una molla o una pedana, che, premuta con energia, ci fa sollevare più in alto.  

Padre Vito Nardin

(L’immagine dell’ultima pagina: elaborazione grafica dell’Arco absidale della Basilica di san Giovanni a Porta Latina. Confrontare con la copertina della lettera pasquale 2020

 

 


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