Lettera Padre Pasqua 2020

Lettera Padre Pasqua 2020

Italy1.png Carissimi confratelli
 

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Con questa lettera continuo il tema della consacrazione. Mi rivolgo a
tutti voi Confratelli, Suore della Provvidenza rosminiane, Figli adottivi,
Ascritti. Il nostro impegno di consacrazione nella Famiglia rosminiana
è espresso in forme differenti, ma la nostra vita è la stessa: siamo tutti
innestati “in Cristo”, tutti tralci sull’unica vite, associati nel carisma
della carità universale, via della nostra santificazione.
Il fine di queste pagine è duplice: anzitutto rafforzare la convinzione
che la nostra vita non è “sprecata”, perché donata a Dio.
Secondariamente: siccome appunto è donata a Dio, non lesinare il
dono, ma offrirla con generosità, anche se sembrasse uno spreco agli
occhi del mondo. Il “mondo” non ha il diritto di disprezzare l’esistenza
dei credenti, giudicandola sterile e inutile. Noi, però, non lesiniamo il
dono, anzi, abbondiamo, fino allo “spreco”, perché si tratta di donare
a Dio.
Il valore della consacrazione battesimale.
La consacrazione tuttavia è un fatto di qualità… divina, e questo non è
poco, anzi. Si deve notare, comunque, che si è rafforzata la
consapevolezza della propria consacrazione battesimale, alla quale
dedico più sotto, uno spazio.
La prima consacrazione.
“… anche Abele offrì primogeniti del suo gregge e il loro grasso”. (Gen
4,4).
L’offerta fatta da Abele, la prima in ordine di tempo, è stata anche un
principio, cioè un paradigma per le consacrazioni successive. Dio
chiama chi è “piccolo”, ma attraverso di lui avvengono “grandi cose”.
La prima consacrazione, secondo la Sacra Scrittura, è quella di Abele.
Anche se figlio di peccatori, rimane, per natura, adoratore. E’ un giusto,
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perché riconosce la verità e adegua il proprio agire alla verità. Verità e
giustizia sono due facce della stessa medaglia. La giustizia è l’azione
corrispondente alla verità. Abele riconosce l’origine di sé stesso e del
suo gregge. Consapevole di questo, offre qualcosa a chi gli ha dato la
vita e i mezzi per vivere. E’ naturale ringraziare, adorare, offrire a Dio.
E’ possibile offrirsi e consacrarsi a Dio, anzi, augurabile.
Quando l’uomo si spinge verso il Creatore tende a restituirgli sé stesso,
con la gratitudine. Questo comporta anche un’offerta, quindi una certa
distruzione. Non si accontenta di qualche pensiero o di parole, ma si
priva di qualcosa che ama, anche se Dio non ha bisogno di quella cosa.
A Dio è gradito ogni tipo di bene che gli viene offerto. Addirittura,
anche il cuore pentito di avere compiuto il male è un bene gradito (Cfr.
Salmo 50). La via all’offerta di consacrazione, che sia di ringraziamento
o di espiazione, è sempre aperta. (Cfr. A. Rosmini, Teosofia, nn. 1057-
1058).
Abele è “molto” giusto nel senso che, anche se è il figlio secondogenito,
offre i primogeniti del suo gregge. Altre persone vivranno la stessa
esperienza, perché brilli la potenza del Creatore e non della creatura:
“i primi saranno ultimi e gli ultimi saranno primi”. La riflessione ci porta
anche a Betlemme: la nascita dell’unigenito Figlio di Dio, nuovo Adamo
e nuovo Abele, è tra i pastori, emarginati, ultimi nella società. Abele e
Gesù pagano con la vita la propria offerta, vittime della gelosia di
coloro che si ritengono primi.
La generosità non comune delle persone comuni.
Tutti noi, anche gli Ascritti, abbiamo tratto vantaggio dai recenti
pronunciamenti della Chiesa sulla vita consacrata. Sono numerosi e
validi, iniziando dal Concilio Vaticano II fino ad oggi. Tra tutti, eccelle
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l’Esortazione Apostolica Vita consecrata. Il messaggio culminante di
questo grande testo programmatico è intitolato “la sovrabbondanza
della gratuità”. Come esempio significativo del dare tutto, tutto in una
volta e tutto per sempre, propone un brano del Vangelo di Giovanni:
“Maria, presa una libbra di olio profumato di vero nardo assai prezioso,
cosparse i piedi di Gesù e li asciugò con i suoi capelli, e tutta la casa si
riempì del profumo dell’unguento” (Gv 12,3).
Maria è una donna comune, ma ha un amore non comune per Gesù.
Non trattiene nemmeno una goccia dell’unguento, lo spreca per i piedi
di Gesù, segno di un amore perpetuo, oltre la morte. Infatti si
ungevano solo i piedi dei defunti, non dei viventi. Anche i capelli,
ornamento principale per una donna, qui sono strumento per
asciugare i piedi. Giuda segnala lo spreco, rispetto alla possibilità di
aiutare i poveri con quella somma, corrispondente ad un anno intero
di salario. Gesù fa capire che i poveri non vanno “solo” aiutati, ma
vanno accolti nella comunità, sempre, perché saranno anch’essi una
sua presenza.
Rosmini nel n. 459 delle Costituzioni, introduce l’universalità della
carità nel nostro Istituto. Cita un episodio simile, narrato nel Vangelo
di Luca: “Le sono rimessi molti peccati, perché molto ha amato” (Lc
7,48). La carità, se è vera, non si lascia limitare e tende al bene più puro
e più largo che è possibile, senza vantaggio personale.
La consacrazione vera ha tanti abiti, ma una sola sorgente, la carità
divina che ha trovato posto nel cuore umano. L’universalità fa parte
integrante della carità
Tutti i cristiani sono chiamati a dare tutto, e tanti lo fanno davvero,
dove si trovano. C’è da riflettere molto sul buon esempio che proviene
dalla donazione che è praticata nel lavoro, nelle malattie. Oggi
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specialmente si guarda nuovamente con maggiore stima verso la
missione dei medici e degli operatori sanitari. Anche le famiglie
affrontano ritmi di vita e condizioni molto impegnative. Mi
ridimensiono io stesso, come religioso, quando sono tentato di
credermi generoso, pensando al fatto che cito qui. Un parroco aveva
organizzato un pellegrinaggio per visitare un’abbazia. Era riuscito a
suscitare interesse nei buoni uomini della sua comunità, dicendo che
anche quei monaci lavoravano la campagna. Aveva raccomandato
anche di parlare sottovoce in quei luoghi così mistici. Il monaco
richiesto di presentare la loro vita stava dicendo “Cari fedeli, dovete
sapere che qui.. .ci si alza alle tre del mattino per la prima preghiera,
poi di nuovo alle sei….”. Ad un certo punto si è sentita la voce di uno
che diceva al vicino: “Mia moglie si alza anche sette volte durante una
notte per i nostri piccoli”.
La totalità della consacrazione religiosa
<<Dio non si può amare un po’>>, secondo sant’Agostino. In queste
parole è evidente un invito a chiunque “fare di più”.
L’impegno di dare “tutto” costituisce la fatica del religioso e della
religiosa, ma anche la sua vera realizzazione. Il religioso è l’uomo del
dono totale. Padre Pier Giordano Cabra, benemerito collaboratore per
la stesura dell’Esortazione apostolica “Vita consecrata” è autore di libri
efficaci, ristampati più volte, che segnalano il dono di tutto: Con tutto
il cuore, (la verginità e il celibato); Con tutte le forze (la povertà); Con
tutta l’anima (l’obbedienza); Come te stesso (la missione); Caro Stefano
(lettere a un giovane che potrebbe fare di più).
Di conseguenza, dovendo scegliere, qual è il tipo di vita che possa
favorire un amore illimitato verso Dio? Rosmini, accorgendosi, a
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diciassette anni, che era Dio che gli rivolgeva la chiamata della
consacrazione non ritardò a dare la risposta. Aveva già compreso, alla
fine dell’anno precedente, che “non c’è altra sapienza se non in Dio”.
Il criterio da applicare in ogni circostanza è il primato di Dio, perché il
valore di ogni singola azione, anche dello studio, è determinato dal suo
oggetto, dal suo fine. Tendere al bene, ascendere, calamitato in alto,
su Dio, in ogni istante della vita e in ogni azione: come la linfa, come
l’incenso, come il profumo.
Queste immagini permettono di esporre il fondamento della nostra
vita consacrata in termini dinamici, non statici. La consacrazione non è
un fatto circoscritto in una giornata. Inizia in un determinato
momento, ma non ha momenti di interruzione.
Il fondamento e la catena d’oro e la catena d’oro della consacrazione
rosminiana.
Chiunque legge le Costituzioni può rimanere quasi perplesso riguardo
alla Parte Sesta, che ha come titolo “Fondamento di tutto l’Istituto”. Le
dedica qui solo nove pagine, poche se si confrontano con l’abbondanza
di riferimenti a questo tema in altri suoi scritti. Qui presenta solo i
quattro pilastri del fondamento: la Provvidenza, la Grazia di Gesù
Cristo, la Giustizia, l’Amore di Dio. Il legame fortissimo tra loro li rende
una piattaforma solidissima. Sembra di poter riscontrare la
schematicità che si usa quando si definisce un’identità: tu sei un
consacrato rosminiano se vivi queste quattro dimensioni, e non altre.
Questa piattaforma fondamentale stabilita nelle Costituzioni diventa
anche una catena d’oro nei cinque discorsi di Rosmini tenuti nella
celebrazione delle professioni perpetue dei confratelli. Ecco gli anelli
“amabili e preziosi”: “La giustizia, primo anello, ci conduce a incontrare
Dio e a scegliere come guida dei nostri passi la sua Provvidenza e
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bontà: secondo anello. Dio dirige i nostri passi alla carità del prossimo,
terzo anello. La carità ci porta al sacrificio: quarto anello. E il sacrificio
alla gloria immortale: quinto e ultimo anello”.
Non è possibile qui trattare per esteso i cinque discorsi di Rosmini, ma
sono assolutamente da conoscere.
Una sintesi ardita e impegnativa fu scritta nel 1952 da Maria Teresa
Antonelli, dell’Università di Genova, con il titolo: “L’ascesi cristiana in
Antonio Rosmini”. I temi già accennati vengono sviscerati con
particolare acutezza. Risulta brillante e illuminante la sua conclusione,
che ci aiuta a precisare ancora meglio la nostra stima per la
consacrazione come si è attuata proprio in Rosmini. “Il santo cristiano
nasce quando ha tanto desiderato di Dio, oltre e più di sé stesso, che la
realtà dell’Amore è venuta ad abitare in lui al posto d’ogni amore
proprio. La sua esperienza non è né ascetica né mistica: la sua vita è
semplicemente liturgica, nel senso più integrale del termine, come
ripetizione del mistero dell’incarnazione: egli non è che l’immagine del
Cristo: Amore di Dio dentro carne d’uomo”.
L’immagine che ci aiuta a contemplare Rosmini definito santo liturgico
è quella di un’ape: il polline assorbito da qualsiasi fiore è trasformato
in miele limpidissimo e dolcissimo.
L’immagine dell’alveare si addice anche a noi, Famiglia rosminiana
dalle braccia larghe e consacrate. Una realtà unica, vivente e operante
in azioni concordi, varie e differenti. Nella concordia si vuole il bene
comune; nella varietà si mettono a disposizione i doni personali, nella
differenza ci si integra positivamente sull’ unico fine.
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La consacrazione perfetta è “liturgica”.
Nella lettera quaresimale ho fatto emergere la dimensione “comune”
della consacrazione con i richiami a tre regole. Ora, questa qualifica di
Rosmini santo “liturgico”, non solo “ascetico e mistico”, richiede un
approfondimento.
Sant’Agostino ci teneva a ricordare che ciò che lo distingueva dai fedeli
in quanto vescovo era meno importante di quello che lo univa a loro
come battezzato. Il suo pensiero è coltivato da Rosmini, in molte opere.
Lo troviamo nella sua dottrina riguardo al sacerdozio comune dei fedeli,
che nella citata lettera quaresimale era rimasto solo accennato.
“Rosmini tratta la questione con un linguaggio davvero audace per il
suo tempo ed è talmente profondo nel giustificare teologicamente le
sue affermazioni, che ancora oggi rimane, a dire di esperti, insuperato.
(A. Neglia, Laici senza complessi, i pag. 72).
In particolare, Rosmini fa risplendere la consacrazione battesimale e
quindi il sacerdozio comune dei fedeli in sette enucleazioni, qualificate
come poteri, che qui riassumo. Valgono per tutti noi, in quanto tutti
battezzati.
Il semplice fedele battezzato: “In virtù del carattere sacerdotale
partecipa in qualche modo a ciascuno dei sette poteri della Chiesa
universale.
1-potere costituente: è proprio del vescovo, del sacerdote, ma anche
di ogni cristiano.
2-potere liturgico: il fedele non ha il potere di immolare la vittima del
Nuovo Testamento mediante la consacrazione del pane e del vino, ma
ha la facoltà d’offrirla all’eterno Padre.
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3- potere eucaristico: in virtù del battesimo acquista il diritto di ricevere
gli altri sacramenti, compresa la santissima Eucarestia. Egli può anche
in caso di necessità amministrare a sé stesso e agli altri battezzati un
tale sacramento. (Questo avviene attualmente con i ministri della
Comunione eucaristica, prevalentemente fedeli laici).
4- potere di sciogliere e di legare e del potere medicinale: può ricevere,
– se pentito, ecc.- il perdono dei peccati, l’unzione degli infermi e il
viatico.
5- potere ierogenetico: il matrimonio dei cristiani è in pari tempo un
sacramento e rappresenta l’unione di Cristo e della Chiesa. I coniugi
sono i ministri di questo sacramento. Mentre riguardo agli altri
sacramenti il carattere battesimale impresso in loro dà solo la facoltà
passiva di riceverli, rispetto al sacramento del matrimonio dà loro
altresì la facoltà attiva di amministrarlo e di formarlo.
6- potere didattico: benché spetti principalmente ai vescovo e ai
sacerdoti inviati da loro, tuttavia anche il semplice fedele è in parte
chiamato al ministero della parola, poiché:
1. Egli è obbligato a confessare Cristo in faccia agli uomini;
2. Può ripetere l’insegnamento ricevuto dai pastori della Chiesa e sotto
la loro direzione comunicarlo ad altri, colla viva voce e cogli scritti;
3. Ne ha l’obbligo, per esempio se è genitore, per infondere nei figli
una sana dottrina non solo per mezzo di altri, ma convivendo con loro;
4. Ha diritto di confrontare l’insegnamento di un pastore della Chiesa
con quello degli altri pastori della Chiesa universale, e di rigettare il
primo se è contrario alle decisioni espresse dalla Chiesa universale, o
di scegliere l’opinione più comune e più autorevole, trattandosi di cose
opinabili.
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7- potere ordinativo: riguarda le persone che vengono preposte al
governo della Chiesa, le leggi disciplinari della Chiesa, le cose
possedute dalla Chiesa. (Cfr. Antonio Rosmini, La Società teocratica, a
cura di Clemente Riva, pagg. 237-248).
Questi sette “poteri” siano vissuti come meritano. Sentiamo tutti in
modo forte l’appartenenza alla Chiesa, alla sua vita, alla sua missione.
Non è lecito essere invadenti e presuntosi, lo sappiamo, ma, nello
stesso tempo, non possiamo essere tiepidi, insipidi, spenti. Possiamo
essere sale della terra e luce del mondo. Mettiamo la vita in mano a
Dio con generosità e vedremo che non sarà affatto sprecata, ma
potenziata!
Nota. Recentemente don Giuseppe La Torre, sacerdote della diocesi di
Mileto, frequentatore della comunità di Porta Latina, ha pubblicato
una poderosa tesi di dottorato su questo tema, nel quale il pensiero di
Rosmini sul sacerdozio comune dei fedeli ha trovato degna
collocazione, approvata con la massima lode presso il Pontificio Istituto
S. Anselmo. “Antonio Rosmini può, con diritto, essere definito anche un
liturgista e un anticipatore del rinnovamento liturgico perché, nelle sue
opere, ha cercato di elaborare un sistema che mettesse in risalto le
ragioni del pubblico culto nella Chiesa”.
Nota. Anche se gli Ascritti non sono religiosi o religiose con voti, noi
Religiosi e Religiose con voti siamo tutti Ascritti di diritto (Cfr.Cost. n.
129, D) e fedeli cristiani.
La consacrazione e le difficoltà per i giovani, oggi.
Negli ultimi decenni la situazione giovanile riguardo alla vocazione
religiosa e la situazione della Vita consacrata sono mutate
radicalmente. La “forbice” come si usa dire, tra queste due realtà si è
allargata moltissimo. Oggi la vita consacrata è vista, spesso, come una
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vita sprecata. Infatti, sono sempre meno numerose, nel mondo
occidentale le vocazioni religiose. Anche in altre aree si sta verificando
una diminuzione. Viceversa, i giovani, non solo oggi, ma oggi più di ieri,
sono molto orientati a non sprecare la propria vita, bensì a realizzarsi.
Questa tendenza è dovuta anche alle grandi aspettative dei genitori nei
riguardi dei loro figli, meno numerosi rispetto al passato.
Non si può dubitare che ogni autentica offerta a Dio raggiunge sempre
il suo fine. A volte è richiesto un prezzo alto, per le difficoltà che si
frappongono, che, tuttavia, lo rendono più prezioso. E’ stato così, fin
dall’inizio, ma è evidente che, per i giovani d’oggi, la vita consacrata,
pur mostrando ancora il suo fascino, non nasconde qualche ruga. In
occidente è diminuita la vita cristiana, le famiglie hanno pochi figli, e di
conseguenza questi fattori influiscono nelle aspettative dei genitori nei
confronti dei figli. Diminuiscono, di conseguenza, i candidati per le
congregazioni religiose e per le diocesi.
D’altra parte, la vita consacrata non sembra che possa rinunciare a
quella sovrabbondanza di gratuità, esigenza radicale che la caratterizza
fin dalla sua origine. Si tratta, allora, di mostrare che quello che è visto
come uno spreco, in effetti, è un dono d’amore, quindi una
realizzazione. Senza questo donarsi, notiamolo bene, non solo la vita
consacrata, ma anche la vita umana non si realizza, e dunque risulta…
sprecata.
Non è un gioco di parole. Si possono avere opinioni differenti sulle
modalità infinite di realizzare il dono d’amore nella propria vita, ma
questo non toglie il tema di base della consacrazione. Ogni uomo è
Abele. Il modo migliore per non sprecare sé stesso e i giorni è questo:
offrirsi e offrirli a Dio.
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Non si tratta di una limitazione, anzi, è la realizzazione dell’uomo come
immagine di Dio. Un pensiero di Rosmini ci illumina ancora una volta:
Dio non avrebbe creato l’uomo a sua immagine se non avesse posto in
lui la possibilità di essere autore del proprio bene.
Nel settembre 2019 fu beatificata Benedetta Bianchi Porro, morta nel
1964 a 28 anni, paralizzata e cieca. Fin dalla nascita aveva una
disabilità, per la quale veniva chiamata “zoppetta”. Lei però l’aveva
accettata tanto da definirsi “zoppona”. Ovunque arrivava sprizzava
gioia e generosità. Aveva scritto: “La carità è abitare negli altri” e
anche: “La pace viene quando non si miete più per il nostro granaio, ma
per quello di Dio”. Il miracolo per la sua beatificazione avviene mente
è viva a Lourdes, dove si reca “ad attingere forza dalla Mamma
celeste”. Accanto a lei, davanti alla grotta della Vergine, c’è una
giovane in sedia a rotelle che non riesce a smettere di piangere, mentre
prega per la propria condizione. Benedetta la abbraccia, la consola, le
dice: “La Madonnina è lì che ti guarda”, e questa ragazza, poco dopo,
si alza e cammina. “È il vero miracolo di Lourdes, si prega per gli altri e
si gioisce per gli altri più che per sé stessi”. Benedetta non è invidiosa,
anzi, è felice di aver assistito a una guarigione miracolosa.
Questa vicenda aiuta a individuare con sicurezza la via della
realizzazione piena. Dio dà a tutti una via di santificazione, nella salute
o nella malattia, con una vita lunga o una vita breve, nella buona fama
o nel disprezzo degli uomini. L’essere scartati dagli uomini non deve
indure a ritenersi scartati da Dio.
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L’uomo scarta, Dio no. Chi si consacra non sarà scartato. Alcuni
esempi.
Nella lettera quaresimale ho citato Ezio Viola religioso rosminiano non
sacerdote e Maria Cristina Boffelli, ascritta consacrata. Qui ricordo
brevemente tre religiosi rosminiani nei quali si rispecchia in parte il
messaggio della consacrazione alla quale Dio dà il modo per superare
l’ostacolo.
Si tratta delle esperienze di chi è divenuto tesoro divino perché ha
continuato a volersi consacrare a Dio nonostante tutto.
Il primo è sicuramente il Padre Fondatore, come già accennato sopra.
Egli stesso aveva avuto il presagio, a diciotto anni, di dover essere
emarginato, come una pietra non ritenuta adatta per la costruzione
della Chiesa, ma che poi viene pulita e lavorata fino a diventarne una
colonna.
Più tardi, mentre si trova al Calvario, giovane di 32 anni, gli giungono
due tentazioni, cioè due inviti ad essere meno generoso, a non
<<sprecare>> la sua vita su quel monte lontano da tutti. Il primo gli
viene da sua madre. Non sappiamo con quali parole abbia risposto, ma
si può intuirlo da quanto egli scrive a don Luigi Gentili, il quale stentava
a <<sprecare>> la sua vita venendo, dopo tante promesse e
tentennamenti, da Roma. L’altra è la risposta data allo stesso don Luigi
: “Ma ciò che il mondo giudica pazzia, è veramente pazzia? Se davvero
è pazzia, allora anche la Croce di Gesù Cristo è pazzia; è pazzia il
Vangelo; è pazzia l’esporsi ai pericoli e alle sofferenze per il nome di
Gesù Cristo, come hanno fatto i santi martiri”.
Chi non si sentisse di abbracciare la vita consacrata deve guardarsi dal
disprezzarla, considerandola quindi una vita sprecata. Così scrive
Rosmini, prendendo da san Tommaso. (Massime di perfezione, La vita
perfetta, n. 6). Non si ripeta la scusa di chi, rinunciando a sforzarsi
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ancora per raggiungere il grappolo d’uva, se ne va dicendo “non è
ancora matura”.
Piuttosto il cristiano senta che la carità è una via altrettanto sicura, a
patto che sia intesa così: “La carità perfetta, autentica perfezione di
ogni cristiano, poiché porta tutto l’uomo nel suo Creatore, può definirsi
una consacrazione totale o sacrificio che l’uomo fa di sé stesso a Dio.
(ivi. N. 7).
Quanto è preziosa questa affermazione: dove c’è la “carità perfetta”
c’è anche la “totale consacrazione o sacrificio”. Ė una stella
permanente, intramontabile sulla Famiglia rosminiana e sulla Chiesa.
Come dire: i sacerdoti e i laici non disprezzino la vita religiosa, né i
religiosi disprezzino la vita dei sacerdoti e dei laici, perché quello che
vale per tutti è la “carità perfetta” intesa come “totale consacrazione
o sacrificio”. Le Massime di perfezione, dopo 190 anni, mantengono
tutta la loro attualità.
Ė evidente la felice intuizione del Padre fondatore di aprire la porta
dell’Istituto della Carità a chiunque abbraccia la carità perfetta, come
totale consacrazione a fare ciò che piace a Dio. “Il nostro Istituto non è
né Società di chierici, né di laici, ma Società mista: ed è anco questa una
qualità che la parte e la distingue dagli altri religiosi istituti. La ragione
di ciò si è, che avendo essa per fine la Carità universale questa Carità
può essere esercitata tanto da laici, come dagli ecclesiastici; onde la
parte degli ecclesiastici è bensì la parte principale, ed integrante, ma
non essenziale”. (Carteggio Rosmini-Setti, vol. 12, parte II. Lettera
natalizia sulla Mirabile congiunzione 10 dicembre 2014, pag. 13). Ė da
notare che qui si parla dei “fratelli laici” religiosi rosminiani rispetto ai
“chierici” cioè ai sacerdoti rosminiani, ma l’Istituto fu approvato
comprendente anche i figli adottivi e gli ascritti.
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Il secondo è padre Clemente Rebora. Padre Giuseppe Bozzetti, il 6
novembre 1930, lo accoglie a Stresa per alcuni mesi, su richiesta della
Diocesi di Milano. Clemente Rebora, che ha quarantacinque anni,
laureato in lettere, digiuno di formazione cristiana, viene introdotto
agli studi teologici di dogmatica e di morale, di sacra scrittura, liturgia,
diritto canonico, storia della Chiesa. Durante quei mesi i responsabili
diocesani propendono a non farlo proseguire verso il sacerdozio. Il 17
dicembre dopo aver pregato inginocchiato presso la tomba di Rosmini,
ritornato in camera scrive: “Rosmini santo, intercedi per me… Chiedi a
Maria e a Gesù che mi diano con chiarezza una risposta a questa
domanda, domani mattina: un cammino nella volontà del Signore
vivendo come vivo ora…”. “Scrissi questo verso le 18 del 17 dicembre
1930; poco dopo entrava P. Bozzetti con la risposta!”
Nota. Come non notare la prontezza della Provvidenza, e di Rosmini
invocato come <<santo>> da Clemente Rebora non ancora rosminiano!
Rebora va a Milano e reca la lettera di Padre Bozzetti al proprio padre
spirituale don Angelo Portaluppi. Padre Bozzetti, nella lettera,
affermava che “pur essendogli gradita una somigliante recluta”, “non
vi sono predisposizioni in lui alla vita religiosa” e lo invitava a “coltivare
la sua vocazione al sacerdozio”. Ritornando a Stresa il 1. Gennaio 1931
Rebora stabilisce in un motto programmatico il suo prossimo lavoro
interiore: “Dalla conversione a Cristo alla conversione in Cristo”. Alla
fine di marzo va al Seminario Maggiore di Venegono per un incontro
personale con mons. Petazzi. Padre Bozzetti scrive il resoconto
dettagliato del programma svolto e conclude: “L’ottima condotta del
Rebora e la conoscenza delle sue rare doti morali e spirituali mi fanno
ben contento di essermi occupato di lui e non ho che da raccomandarlo
a V.S. Rev.ma sotto ogni riguardo”. Questa lusinghiera presentazione
di padre Bozzetti non fu sufficiente per il rettore. La mamma di Rebora,
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però già sei mesi prima gli aveva detto: “Tu diventerai Don o Padre? Io
ti sento e ti vedo più come padre – e padre rosminiano”. Ritornato a
Stresa, dichiarato “non accettato”, ha un altro lungo colloquio con
padre Bozzetti, il quale gli lascia un’attesa di qualche giorno per dargli
il tempo di fare una sua scelta libera, spontanea e personale, qualora
volesse “entrare nell’ordine rosminiano”. L’8 aprile scrive a sua
mamma dicendole che se più avanti verrà a Stresa ci sarà più di uno
che “avrà caro anche di vedere la mamma di questo professore
bambino”. Il 12 aprile comunica a padre Bozzetti la sua decisione, il 13
maggio da Stresa passa al Calvario per iniziare il Noviziato. (Cfr. C.
Giovannini, L’approdo rosminiano di Clemente Rebora, pagg. 62-72). A
questo racconto della sua conversione e consacrazione è opportuno
aggiungere un particolare non trascurabile. Durante il noviziato,
Rebora ebbe come compagno tra gli altri don Ambrogio Casale, entrato
un anno prima. Questi divenne poi docente di matematica e fisica,
esperto anche a riparare orologi, rasoi e televisori; un’anima limpida
che non avrebbe saputo dire una bugia, mentre non era eccellente a
tenere la disciplina in classe. Nel 1999, mentre ci trovavamo insieme
nella comunità di Stresa mi confidò che se Rebora era diventato
rosminiano lo si doveva anche a suo fratello. Questi era cameriere a
Venegono. Un giorno, a tavola, i superiori del Seminario parlavano di
un certo professore Rebora, già adulto, che chiedeva di essere accolto.
Dalla conversazione capì che non erano favorevoli, ed egli si permise di
dire con gentilezza che a Domodossola, dove era novizio suo fratello
Ambrogio, “accettano anche uomini adulti”. E così fu. La Provvidenza
ha le sue vie, e si serve anche dei camerieri, degli ultimi.
Un altro esempio di consacrazione religiosa maturata accettando una
prospettiva diversa da quella sognata in precedenza, riguarda la vita di
padre Giovanni Battista Zantedeschi. Da fanciullo era assiduo
chierichetto, per il “pane eucaristico”, ma anche – me lo aveva
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confidato egli stesso in occasione della celebrazione del 50° di
ordinazione sacerdotale nel suo paese natale – perché, ritornando dalla
Messa, passava vicino al forno del pane e riceveva il dono di una buona
pagnottella calda.
Mentre era novizio, ebbe la percezione che i superiori, al termine, lo
avrebbero inviato agli studi magistrali e non al liceo classico. Questo
significava, allora, essere esclusi dal sacerdozio e rimanere maestri
elementari per tutta la vita. Entrò in crisi, ma finalmente ebbe il
coraggio di andare dal padre maestro. Padre Ugo Honan, stimato e
prudente, lo ascoltò e poi gli disse con chiarezza: “Il sacerdozio è dono
di Dio. Se Dio ha previsto che tu sia sacerdote non c’è nessuno al mondo
che possa impedirlo. Se Dio ha previsto che tu non sia sacerdote puoi
fare qualsiasi cosa ma non lo diventerai”. Egli si acquietò. Frequentò
l’Istituto magistrale. Fu insegnante e vicerettore a Fabriago, come ho
ricordato nella lettera dello scorso anno. Terminata la guerra diminuiva
la necessità di avere maestri, aumentava la richiesta di formatori
nell’Istituto e di sacerdoti nelle parrocchie. Fu inviato a Roma per gli
studi teologici e pochi anni dopo , lui e don Clemente Riva, ex-maestri
elementari, erano responsabili della formazione dei giovani rosminiani.
Ciò che conta è la donazione totale nella consacrazione, il resto deve
essere lasciato alla provvidenza del Padre.
Per mons. Clemente Riva c’era stato anche uno scarto precedente.
Aveva fatto richiesta di entrare nel seminario di Bergamo. Purtroppo,
dopo la quinta elementare non aveva più potuto continuare la scuola
per un paio d’anni. Non poté superare l’esame di ammissione e fu
scartato. Il suo tema era risultato ricco di parole in dialetto
bergamasco, ma poche in lingua italiana. Fu accolto, invece,
nell’Aspirantato rosminiano, poi nel noviziato, poi avviato all’Istituto
magistrale. La sua attività culturale fu vasta e feconda, e il suo zelo
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pastorale lo portò a prodigarsi nella missione di vescovo ausiliare di
Roma.
Conclusione.
Non posso trascurare di dedicare qualche riga riguardo alla nostra Casa
di Via di Porta Latina a Roma, sede del Collegio Missionario Antonio
Rosmini e Sede Generalizia. Siamo grati alla Provvidenza. Il nostro
nostro Padre Fondatore è ora uno dei Beati della Santa Chiesa, “una
colonna” ecclesiale. Il suo “affetto, attaccamento, e rispetto illimitato
verso la Sede del Romano Pontefice” è premiato anche con
l’affidamento di questo edificio consacrato alla memoria e al culto
dell’apostolo ed evangelista Giovanni. Non si può dubitare che da lui
sarebbe considerato davvero un “premio” e un onore essere incaricati
del servizio della Basilica di San Giovanni a Porta Latina. Questo edificio
è di proprietà della Basilica del Laterano, che è la Chiesa madre di tutte
le chiese in Roma e nel mondo. La Cattedrale di San Giovanni è la
nostra parrocchia. Il legame è evidente, e ha le caratteristiche di una
consacrazione non solo simbolica a considerarci collaboratori
particolarmente coinvolti nella missione del Santo Padre. Non vi
nascondo che ho provato una gioia intima confrontando il presagio di
Rosmini, scritto in una sua poesia a diciotto anni, riguardo all’essere
prima una pietra scartata e poi una colonna del tempio, con questa
frase di Giovanni nell’Apocalisse: “Tieni saldo quello che hai, perché
nessuno ti tolga la corona. Il vincitore lo porrò come una colonna nel
tempio del mio Dio e non ne uscirà mai più” (Ap 3, 11-12).
E’ doveroso aggiungere che anche la lungimiranza di padre Giuseppe
Bozzetti risulta premiata: la nostra Comunità è molto vicina
all’Università Lateranense.
19
Consacrazione rosminiana: sempre, ovunque, per amore di Dio solo.
La vocazione rosminiana è una vocazione difficile. Questo deve essere
detto e mantenuto fermo. E’ utile ricordare ogni giorno l’esempio di
Gedeone. Non il numero, ma la qualità costituisce un forte esercito. Si
può essere buoni rosminiani, e intendo tutti i membri tutta la famiglia
rosminiana, se si ama Dio prima e al di sopra di tutto. Gli ostacoli
massicci della vita solo vinti dalla fede. Il masso compatto di alabastro,
se viene tagliato a lastre sottili, diventa una vetrata luminosa. La prova
è nella nostra Basilica. Allo stesso modo, la vita faticosa diventa
consacrazione luminosa se è suddivisa in tanti atti di amore di Dio e del
prossimo quante sono le ore, e diciamo pure anche le mezzore.
La consacrazione non è altro che una azione resa sacra dalla carità
perfetta.
“La bontà delle cose e delle persone viene solo da Dio, principio, fine
e perfezione di tutto. Quindi l’amore di Dio sia l’unica fonte di tutte le
sollecitudini e fatiche a cui sono dedicati i membri di questo Istituto
anche nell’amore del prossimo” (Cost. nn.479-483).
Preghiera del mattino, di offerta e consacrazione personale di
Antonio Rosmini.
(Tradotta da un inedito in latino. Consegnata ai membri del tribunale,
al termine della seduta di apertura del processo diocesano, a Novara,
il 2 dicembre 2019)
O Dio, ti consegno oggi e sempre la mia libertà, il corpo, l’anima e tutte
le mie potenze: la memoria, l’intelletto, la volontà, i sensi.
Affermo che per quanto dipende da me non consento e non consentirò
mai a ciò che posa offenderti.
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Propongo fermamente di impegnare il mio essere, le mie facoltà ed
energie al tuo servizio e per la tua gloria.
Vorrei impegnare tutto me stesso per procurare che tutti gli uomini ti
servano, ti glorifichino e ti amino.
Ti ringrazio perché ogni giorno elargisci con la tua benevola
provvidenza i meriti della santissima umanità di Cristo e della Beata
Vergine.
Ti offro tutte le mie azioni, lavate e abitate dal preziosissimo sangue di
Gesù nostro redentore. Siano sempre unite ai meriti della vita, della
passione e morte di Cristo, di Maria santissima e di tutti i santi.
Rovereto, 22 giugno 1838
Roma, 2020.
Padre Vito Nardin

 

Lettera Natale 2019

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